Il mondo non è pronto per la migrazione di massa causata dai cambiamenti climatici
Centinaia di milioni di persone dovranno lasciare le proprie case entro il 2050. Ma le strategie sono fragili e a livello internazionale non c’è accordo sulla definizione di rifugiato climatico.
di Andrea De Tommasi
Circa 184 milioni di persone, il 2,3% della popolazione mondiale, vivono al di fuori del proprio Paese d’origine. Quasi la metà di queste si trova in Paesi a basso e medio reddito. Non è ovviamente un fenomeno nuovo: la migrazione è stata parte dell’esperienza umana sin dai primi giorni della civiltà. In altre parole, da quando l’Homo sapiens lasciò l’Africa circa 130mila anni fa, gli esseri umani non hanno mai smesso di muoversi, producendo culture, lingue ed etnie differenti.
Se si osservano i trend degli ultimi decenni, la quota di migranti nella popolazione mondiale è rimasta relativamente stabile dal 1960. Tuttavia, ci avverte la Banca mondiale nel suo ultimo World development report, quest’apparente stabilità è fuorviante perché la crescita demografica è stata disomogenea in tutto il mondo: la migrazione è aumentata oltre tre volte più velocemente della crescita della popolazione verso i Paesi ad alto reddito e solo la metà della crescita della popolazione verso i Paesi a basso reddito. C’è dunque una migrazione economica guidata da prospettive di salari più alti e condizioni di vita migliori, che fa sì che circa l’84% dei migranti vada a vivere in un Paese più ricco del proprio. Un elemento da non sottovalutare è che i migranti non sono quasi mai i più poveri dei loro Paesi: lo spostamento ha dei costi che la maggior parte delle persone in condizioni di estrema povertà non può permettersi. Mediamente coloro che migrano sono meno poveri (ma anche meno ricchi) di chi rimane nel Paese d’origine.
Nel quadro delle migrazioni internazionali, quelle provocate da guerra e violenze sono purtroppo in crescita. Negli ultimi mesi l’invasione russa dell'Ucraina, che ha causato la crisi di sfollamento forzato più veloce e una delle più grandi dalla Seconda guerra mondiale, e altre emergenze, dall'Africa all'Afghanistan fino al Sahel, hanno spinto la cifra ben oltre il drammatico traguardo dei 100 milioni di persone costrette a fuggire dalle proprie case. Questo significa che alla fine del 2021, dice l’Unhcr, una persona su 78 in tutto il mondo è stata sfollata con la forza. Una cosa che non è cambiata, tuttavia, è che la maggior parte dei rifugiati e degli sfollati rimane il più vicino possibile ai propri Paesi. Perché, contrariamente alle percezioni, di solito i rifugiati vogliono tornare a casa. Per fare un esempio, la maggior parte degli afgani si trova attualmente in Iran e in Pakistan. Tuttavia c’è un altro potente fattore che sta sconvolgendo i motori delle migrazioni.
Scappare dal clima
Pensate agli eventi meteorologici estremi nel 2022. Calore degli oceani e aumento del livello del mare a livelli record. Il ghiaccio marino antartico ha toccato un nuovo minimo. Estremo scioglimento dei ghiacciai in Europa. Solo in Pakistan le inondazioni hanno provocato lo sfollamento di 33 milioni di persone, mentre altri milioni in Africa sono stati colpiti dalla siccità e dalla minaccia della carestia, dal Corno d'Africa alla costa occidentale del continente. È possibile prevedere in futuro, come in una sorte di fiume carsico, lo spostamento di massa delle popolazioni? Sì, se vaste parti del mondo che ospitano alcune delle popolazioni più grandi diventeranno sempre più inabitabili. Le coste, gli Stati insulari e le principali città dei tropici saranno tra le più colpite, secondo gli scienziati del clima. Le previsioni dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) sono sconvolgenti: il numero di “migranti ambientali” nel 2050 potrebbe essere compreso tra 25 milioni e 1 miliardo. Questi rifugiati già adesso sono in movimento prevalentemente dall'Africa e dal Medio Oriente, dove i Paesi stanno lottando con la crisi climatica e sono danneggiati da siccità estreme. Milioni di questi si sposteranno in Europa nel tentativo di sfuggire agli effetti negativi dei cambiamenti climatici.
Che fare?
Alcuni esperti affermano che l'Europa dovrebbe agire stabilendo una giurisdizione per dare protezione agli sfollati a causa del cambiamento climatico. A differenza della guerra o della persecuzione, infatti, le persone oggi non possono richiedere asilo sulla base dei soli motivi legati al cambiamento climatico. Il Global Compact on Safe, orderly and regular migration, adottato dalla maggior parte degli Stati membri delle Nazioni unite nel 2018 (l’Italia è rimasta fuori), afferma che i governi dei Paesi di accoglienza dovrebbero adoperarsi per proteggere i rifugiati climatici elaborando opzioni di ricollocazione e visti pianificati. Nello stesso anno, il Consiglio Onu per i diritti umani ha rilevato che molte persone costrette a lasciare le proprie case a causa degli effetti del cambiamento climatico non rientrano nella definizione di rifugiato, etichettandoli come “vittime dimenticate del mondo”. In sostanza, ciò comporta che questi individui hanno solo un accesso limitato alle tutele legali dei loro diritti umani e affrontano rischi come l'espulsione. Nel 2020, l'Unhcr ha aggiornato le sue linee guida, argomentando in modo più ampio la protezione di coloro che affrontano rischi ambientali. Nel 2022 l'Argentina ha istituito un visto speciale per le persone sfollate a causa di disastri naturali; allo stesso modo, la Finlandia ha adottato delle norme che danno la possibilità di accettare i rifugiati per motivi climatici. L'Australia sembrava sul punto di introdurre uno schema per concedere visti di lavoro stagionale agli abitanti delle isole del Pacifico (una delle popolazioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici), ma misure del genere non hanno mai visto la luce.
I finanziamenti
Parte della questione potrebbe essere affrontata attraverso finanziamenti che consentano ai Paesi in via di sviluppo di costruire la resilienza contro i cambiamenti climatici. Ciò significa in primis mantenere l'impegno di rendere operativo il nuovo fondo per perdite e danni destinato agli Stati più vulnerabili, che è forse uno dei pochi segnali positivi emersi dalla recente Cop27 di Sharm el-Sheikh.
Inevitabilmente, dovranno essere formulati piani di accoglienza su larga scala pianificati in anticipo. Per esempio, una comunità di residenti dell’isola Jean Charles, in Lousiana, ha ricevuto oltre 50 milioni di dollari per affrontare il reinsediamento su territori più sicuri. La Lousiana è stato uno dei primi casi di uno Stato che utilizza fondi propri per trasferire le persone colpite dagli effetti di uragani e innalzamento del livello del mare. Un’idea di migrazione che applica il cosiddetto managed retreat, ossia il ritiro gestito, che finora non ha trovato applicazione su larga scala.
In parallelo c’è un invito a riformulare la mentalità e la narrazione sulla migrazione climatica, che troviamo nelle parole della giornalista scientifica Gaia Vince, autrice del libro “Il secolo nomade”, che sostiene “il superamento dell'idea che apparteniamo a una particolare terra e che ci appartiene. Avremo bisogno di assimilarci a società globalmente diverse, vivendo in nuove città polari”. Uno scenario in cui il concetto di confini e nazioni cambia man mano che avanziamo in questa crisi climatica. Ci si chiede quanto realistico, in un momento storico in cui il nazionalismo e i partiti politici di estrema destra sono in aumento nel continente.
Con la Svezia che detiene attualmente la presidenza del Consiglio europeo, è improbabile che nei prossimi mesi si registri un cambiamento nella politica dei rifugiati dell’Unione. Come racconta Politico, “il nuovo governo di coalizione di destra del Paese ha già ridotto l'accoglienza annuale di rifugiati a meno di un quinto delle cifre precedenti, e la sua presidenza non ha dimostrato nemmeno la volontà di far passare l'accordo sull'immigrazione in stallo dell'Ue - e le aspettative per qualsiasi cambiamento su questo fronte sono basse”. I costi, dunque, non sono l’unico ostacolo alla gestione delle migrazioni di massa. Fare piani a lungo termine per spostare intere comunità non attira consensi alle urne, e i politici tendono ad essere più interessati a cicli elettorali a breve termine. Un aspetto di cui abbiamo avuto conferma anche in Italia, dove il dibattito sull’immigrazione che ha dominato recentemente l’agenda politica è stato schiacciato sul tema della paura e dell’insicurezza sociale.