I divari di genere si prolungheranno ben oltre il 2030
Persiste la scarsa valorizzazione delle donne nel mercato del lavoro. Il tasso di occupazione nazionale migliora, ma siamo ancora al di sotto della media Ue. Conseguenze sulle pensioni e sul declino futuro della popolazione.
di Antonietta Mundo
Nel 2021, l’anno per l’Italia della forte ripresa economica dopo le chiusure della pandemia, il tasso di occupazione[1] femminile, in età 20-64 anni, è pari al 53,2% e mostra ancora un divario di quasi 20 punti percentuali rispetto a quello maschile che, per le stesse età, raggiunge il 72,4%. Il corrispondente tasso di occupazione femminile della media Ue27 è pari a 67,7%, 14,5 punti percentuali in più di quello italiano.
L’analisi per classi di età mostra, tuttavia, un miglioramento del tasso di occupazione femminile per le italiane più giovani – 25-34 anni –, con tasso di occupazione pari a 54,0%, e per quelle in età 35-44 anni, con tasso pari a 62,4%, rispetto alle donne più grandi di 50-64 anni che presentano un valore pari a 50,1%.
Per capire come andranno le cose in futuro non possiamo prescindere dal forte calo della natalità della popolazione italiana, che si sviluppa in modalità esponenziale e che vede scendere le nascite a 399.431 bambini, dei quali solo 194.600 sono femmine. Troppo poche perché l’Italia non prosegua a un ritmo molto elevato nel declino demografico già iniziato. Infatti, la popolazione italiana, compresi gli stranieri, è passata da 59.236.213 a 58.983.122 residenti nell’arco dei 12 mesi del 2021; i decessi superano di quasi 310 mila unità le nascite e la causa principale di questo bilancio demografico negativo è imputabile alle poche nascite.
Le difficoltà che le donne italiane, più scolarizzate e istruite degli uomini, incontrano per l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro stanno nel pregiudizio miope di molte aziende che contrastano la maternità considerandola una spesa e un handicap produttivo, imponendo alle donne contratti part-time e dimissioni in bianco, senza pensare che l’Italia, priva di un adeguato potenziale di future generazioni di lavoratori, dovrà importare mano d’opera qualificata e non qualificata dai Paesi del terzo mondo o dall’Asia, con un flusso inverso alla delocalizzazione se si volesse incrementare la produzione domestica. L’alternativa sarà il ricorso massiccio alle importazioni di ogni tipo di genere produttivo, con i rischi e le incognite geopolitiche.
Se si analizza poi l’aspetto retributivo per genere, i dati Inps[2] evidenziano per il 2020 un reddito medio annuo lordo da lavoro di 24.702 euro, con una media di 41,3 settimane lavorate, per gli uomini e di 17.929 euro, con una media di 38,8 settimane lavorate, per le donne. Non solo la durata del lavoro nell’anno è ridotta per le donne, ma anche la retribuzione media è più che proporzionalmente ridotta. A parità di retribuzione le 38,8 settimane lavorate dalle donne dovrebbero essere retribuite con 23.207 euro, invece il gap è di 5.278 euro annui in meno rispetto agli uomini! Non poco, purtroppo la strada per l’uguaglianza economica di genere è ancora molto lunga.
Le cose vanno anche peggio per la componente femminile dei pensionati. Nel 2020 le pensionate rappresentano il 51,8% dei 16.041.202 percettori totali, ma ricevono solo il 43,8% della spesa complessiva di 307.690 milioni di euro erogata per le pensioni. Il reddito medio annuo lordo (somma degli importi di tutti i trattamenti previdenziali percepiti) di una pensionata è di 16.233 euro contro i 22.351 euro annui di un uomo pensionato. In questo caso il divario di genere sale a 6.118 euro annui.
La situazione economica descritta dalla situazione delle donne pensionate, proviene da lontano e rispecchia gli aspetti socio economici di dieci, venti, trent’anni fa. Le donne laureate erano poche, molte donne non lavoravano o abbandonavano il lavoro per la cura familiare perché decenni fa nascevano più figli e per il futuro sostegno alla vecchiaia puntavano, più che a una pensione diretta, alla pensione di reversibilità. Infatti, i trattamenti di reversibilità per l’87,1% del totale sono erogati a donne.
I dati sulle pensioni vigenti al 1.1.2022 delle gestioni Inps mostrano che il 62,9% delle pensioni di vecchiaia sono erogate a donne, contro il 37,1% degli uomini. Tale categoria di pensione è da sempre appannaggio delle donne perché richiede meno anni di anzianità contributiva (almeno 20 anni), ma un’età più elevata (67 anni dal 2018). Le pensioni di anzianità o anticipate, che, invece, richiedono carriere continue con molti anni di contribuzione (41 anni e 10 mesi per le donne, un anno in più per gli uomini), senza però un limite di età, sono per la maggior parte (75,1%) erogate agli uomini e le donne riescono ad usufruirne solo per il restante 24,9%.
Anche la vasta categoria dei trattamenti assistenziali che non derivano da contribuzioni versate (pensioni e assegni sociali, pensioni di invalidità civile e indennità di accompagnamento) riguarda prevalentemente il genere femminile, che ne percepisce il 59,5% del totale contro il 40,5% ricevuto dagli uomini.
Queste considerazioni mostrano chiaramente come deve essere superata la scarsa valorizzazione delle donne nel mercato del lavoro, le cui conseguenze si proiettano anche nella sua vecchiaia e nel declino della popolazione.
di Antonietta Mundo, statistica e già consigliera Unipol Gruppo SpA
[1] Tasso di occupazione: rapporto tra gli occupati e la corrispondente popolazione di riferimento.
[2] Inps - Osservatorio statistico lavoratori dipendenti e indipendenti – Anno 2020.
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