L'economia solidale può fiorire in tempi di crisi
Anziani capaci e giovani non inseriti nella vita attiva sono una grande ricchezza sociale: valorizziamoli per tutelare l'ambiente e la società. 16/02/21
di Roberto Mazzotta
La pandemia sta già producendo e poi determinerà una decisa accelerazione di quella che è stata chiamata la “terza rivoluzione industriale”. L’aggressività del virus carica sulla vita delle persone scelte e condizioni che per la verità già erano preparate da cambiamenti avviati da tempo, ma che ora diventano fortemente invasivi. L’esempio più facile da comprendere e che riguarda la vita di tutti i giorni è il lavoro da remoto che si annunciava come una prospettiva possibile e che è diventato un’esperienza diffusa in tutti i settori e in tutti i livelli di attività. In molti casi, specie nelle realtà rimaste più attardate, il passaggio a questa rivoluzione industriale ha subito una spinta improvvisa, priva degli ammortizzatori che la gradualità avrebbe reso disponibili.
Quello che si annunciava come un futuro possibile, da alcuni perfino sognato come una liberazione, sta diventando una realtà che guadagna rapidamente terreno. Bisogna considerare però che con la grande fabbrica post-fordista se ne andrà anche un lavoro stabile e continuo che poteva essere amato o detestato, giudicato come ricchezza o come sfruttamento, e insieme se ne andranno tanti altri aspetti della vita sociale che avevano scritto una lunga storia come lo spirito di classe, il sindacato e poi il contratto collettivo, le battaglie unitarie per il salario e la salute, la pensione.
L’organizzazione della produzione che con grande accelerazione brucia le tappe adattando le tecnologie disponibili, dai robot all’informatica all’ AI, sostituisce in molti casi l’uomo in attività sia esecutive che intellettive. All’uomo restano ancora molti spazi antichi e se ne aprono di nuovi, vasti e coinvolgenti, ma a condizioni diverse e attraverso percorsi diversi.
Un cenno per questi aspetti. Gli “spazi antichi” riguardano prevalentemente il mondo dei servizi, in particolare alla persona, con una larga prevalenza di lavoro autonomo e con una notevole flessibilità nell’entrata, nell’uscita e nella remunerazione. L’industria e la finanza mantengono le porte aperte, ma con l’ingresso riservato alle competenze e in particolare all’attitudine a un adattamento e a un aggiornamento continuo che tengano conto dei cambiamenti frequenti e non prevedibili del tipo di lavoro e della sua organizzazione.
Non c’è quindi spazio per tutti, anzi si va già via via formando nei fatti e comunque si annuncia chiaramente per il futuro una sorta di nuova aristocrazia del lavoro attenta più ai valori individuali che a quelli collettivi, che non si oppone a una remunerazione a progetto, che manifesta un forte spirito di corpo, non in termini di solidarietà, ma in termini di distinzione, essendo il suo potere determinato dalla conoscenza. Come è noto, questo è un titolo assai più discriminante di quanto non sia stato in passato il possesso della terra o del capitale.
Possiamo aspettarci quindi di avere nei prossimi anni un consistente numero di persone dotate di capacità e desiderose di poterle esprimere che restano però escluse, al di là della loro volontà, dalla partecipazione alla produzione organizzata e professionale della ricchezza e del reddito.
Si tratterà probabilmente di una popolazione a composizione multipla. Da una parte i cosiddetti “anziani”, coloro cioè che negli ultimi anni, all’inizio o durante la fase di trasformazione strutturale, sono usciti dall’attività, in molti casi troppo presto, dall’altra tutti coloro che sono destinati a non trovare una collocazione sodisfacente nelle strutture economiche primarie. Non si tratta della vecchia disoccupazione ciclica, ma di una diversa non occupazione strutturale. Alla prima si può provvedere con gli ammortizzatori sociali, alla seconda no.
Per queste ragioni mi ha incuriosito l’idea di Ezio Chiodini che, partendo da preoccupazioni probabilmente diverse, propone di ragionare sulla possibilità di creare una figura nuova, quella dei “collaboratori civici”. Pensa agli anziani in forze e in salute, dotati di una pensione e sprovvisti di un impegno. Io sono convinto che, passata questa difficile esperienza, ci si troverà con velocità crescente davanti a un problema ben più largo che riguarderà in modo sostanzialmente analogo anziani ancora capaci e giovani non inseriti nella vita attiva e desiderosi di essere considerati utili. Si tratta di un problema certamente grave e insieme di una grande ricchezza sociale accantonata che è frutto di un cambiamento accelerato che viene trattato con strumenti di intervento sociale non sufficienti e non adeguati.
Nell’esperienza della prima e della seconda rivoluzione industriale la distruzione di lavoro generata dall’introduzione delle nuove tecniche fu accompagnata dalla rapida creazione di una ben più larga capacità di creare lavoro e ricchezza grazie alle regole e alla forza del mercato. La benzina che alimentava quel motore era la crescita della produttività, mentre il lubrificante fu la contesa sociale che seppe trasformare i poveri in consumatori.
Oggi quel modello non riesce più a funzionare nello stesso modo. Le grandi crisi del Novecento hanno visto nascere risposte diverse per realizzare un elevato livello di occupazione. Tutti consideravano come loro obiettivo la totalità della popolazione attiva. Proprio qui, a mio avviso, si manifesta un fenomeno nuovo: si è formata e si consoliderà una fascia di esclusione sociale quantitativamente significativa e qualitativamente articolata che è destinata a rimanere stabilmente al di là del confine dell’efficacia delle politiche economiche di diverso orientamento che abbiamo conosciuto dagli anni Trenta fino a oggi, con esclusione si intende della politica di Hjalmar Schacht a partire dal 1933 che, per la verità, potrebbe funzionare anche oggi in mancanza però di una possibile condivisione dei fini, almeno da parte nostra.
Trattandosi, a mio avviso, di un fenomeno nuovo, occorre pensare a qualche apparato concettuale che possa venire in aiuto. Penso all’esperienza di riflessione dell’Economia di comunione e dell’Economia civile. Esse si occupano, tra l’altro, di lavoro organizzato per produrre beni e servizi destinati non necessariamente al mercato, ma utilizzati in forme diverse per conseguire il miglioramento della vita delle persone. Nel nostro caso si tratterebbe di esaminare se può esistere e funzionare una sorta di sistema di produzione e di distribuzione parallelo a quello dello scambio.
Si tratterebbe, ovviamente, di un apparato di economia solidale distinto da quella di mercato e ad esso collegato dal cordone ombelicale delle risorse. Il Comune dovrebbe essere il livello istituzionale più adatto. La cooperativa la forma societaria più naturale chiamata a raccogliere come soci persone di diversa età disposte a prestare il proprio lavoro con una remunerazione a progetto e a organizzarne l’attività. I settori di attività potranno essere determinati dal Comune sulla base dei bisogni collettivi legati al territorio, all’ambiente, alla realtà sociale.
Le risorse per mantenere questa economia parallela non dovrebbero mancare. L’impresa della terza rivoluzione produrrà molta ricchezza e per mantenere l’equilibrio sociale si dovrà decidere quanto e con quali strumenti distribuire il necessario ai perdenti. La linea dei sussidi, degli aiuti, delle integrazioni di solidarietà ha sempre svolto una funzione importante, ma oggi appare inadeguata perché la natura del problema sociale è cambiata. Del resto la storia delle Poor Laws del signor Peel, cui in fondo appartiene tutta la linea dei sussidi, non ha mai perso quell’intimo spirito di disprezzo per chi non ce la fa. Nel prossimo futuro una parte importante della società chiederà strumenti diversi di inclusione, non di aiuto.
Abbiamo bisogno quindi di bravi economisti e analisti sociali che ci aiutino a pilotare il futuro, tenendo presente l’avvertimento di un grande di quella professione, John Hicks: “se un matematico fa soltanto il matematico, è un galantuomo che non fa male a nessuno. Se un economista fa soltanto l’economista può diventare un uomo pericoloso”.
di Roberto Mazzotta, politico e banchiere, ex presidente di Cariplo e di Banca Popolare di Milano