Diritti umani: mantenere una comprensione comune è ancora possibile?
In occasione del 75esimo anniversario della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, un viaggio attraverso i principi e le norme alla base del trattato.
di Filippo di Robilant, membro del Comitato scientifico, CeSPI
Quest’anno celebriamo il 75esimo anniversario della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), concepita in seno al Consiglio d’Europa, e firmata a Roma il 4 novembre 1950. Entrata in vigore tre anni dopo (3 settembre 1953, a seguito di dieci ratifiche), rimane il trattato di protezione dei diritti fondamentali più avanzato al mondo sotto il profilo dei meccanismi di controllo giurisdizionali. Il suo maggiore asset, la Corte europea dei diritti dell’uomo, grazie a una rigorosa interpretazione delle sue norme e a una coraggiosa giurisprudenza, ha stabilito nel corso dei decenni alcuni principi che rappresentano riferimenti di grande valore per tutti i cittadini [1].
Reagire in nome dei diritti umani
Se l’anniversario della Cedu è un’occasione per fare il punto sullo stato dei diritti umani in Europa e nel mondo, trattare l’argomento sotto gli effetti di due guerre in corso, dove il diritto umanitario internazionale è stato sistematicamente violato e dove sono stati commessi efferati crimini di guerra e contro l’umanità, non è compito facile. Neppure agevola il primo mese della nuova presidenza Trump, dove il combinato disposto dei suoi ordini esecutivi presi a “muzzle velocity” (copyright Steve Bannon), con l’obiettivo immediato di stordire e sopraffare ogni possibile obiezione, e la dottrina militare del “shock and awe” applicata ai rapporti internazionali, tende a sovvertire le regole della democrazia americana e della coesistenza a livello internazionale. Tuttavia, come ci ha ricordato Ezra Klein del New York Times e tanti altri osservatori, Trump agisce come un monarca perché incapace di governare ma in fondo detiene gli stessi poteri dei suoi predecessori, diversamente da quello che vuol far credere con la sua realtà alternativa. Per dire, la Costituzione, almeno quella, non la può riscrivere a suo piacimento. Opporsi a questa dinamica, o meglio deriva, non è impossibile ma occorre prendere le misure e reagire [2]. Anche in nome dei diritti umani.
Se sono irrilevanti perché fanno paura?
I diritti umani sono “disincarnati” – per usare l’espressione cara ad alcuni illustri filosofi e politologi di casa nostra – da norme positive, tali da renderli inesigibili e i loro violatori non sanzionabili, e quindi irrilevanti nei rapporti di forza e di potere. Quest’affermazione sembra trovare conferma nel nuovo paradigma trumpiano dell’annullamento del significato e della distinzione tra vero e falso, e dalla visione tecno-utopica dell’altro sacerdote del culto, Elon Musk. Per entrambi, i diritti individuali non sembrano avere alcun ruolo o spazio. Se l’irrilevanza dei diritti umani ovunque è sempre più lampante - addirittura nella patria di Eleanor Roosevelt, Martin Luther King e del “We the People” – allora perché continuano a far così paura? Perché in tanti regimi illiberali attivisti per i diritti umani vengono arbitrariamente detenuti o fatti sparire solo per quello che difendono e intellettuali solo per quello che pensano, e in tante democrazie liberali la cultura della sicurezza quasi sempre prevale su quella dei diritti? Possiamo ritenere l’affermazione di un altro americano, il giurista Thomas C. Clark, Ministro della Giustizia del Presidente Truman – “un diritto non è ciò che ti viene dato da qualcuno ma è ciò che nessuno può toglierti” – come sostanzialmente infondata e quindi relegarla a una stagione storica oramai sulla via del tramonto?
LEGGI ANCHE: Global democracy index: diminuiscono nel mondo i governi democratici
Universalità e indivisibilità messi in discussione
No, non possiamo. Per dirla con le parole di Vladimiro Zagrebelsky, “non è la stessa cosa se un diritto non esiste o se il diritto è riconosciuto ma violato, anche impunemente [3]” . È da qui che occorre ripartire. Universalità e indivisibilità dei diritti umani sono messe in discussione, è vero. Lo erano da molto prima del ritorno di Trump. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 non sarebbe passata indenne sotto le forche caudine dell’Assemblea Generale dell’Onu già un paio di decenni fa, a partire dal suo limpido e lapidario primo articolo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Come mai, a 77 anni di distanza, questo principio così cristallino continua a essere ignorato, osteggiato, perfino deriso e calpestato? E ciò nonostante il fatto che, proprio grazie alla Dichiarazione, un insieme di garanzie e di diritti viene da allora riconosciuto non a un gruppo specifico, una razza, un’etnia, una nazione o altro che possa in qualche modo limitarne l’ambito, ma all’essere umano in quanto tale, al di là del colore della pelle, del credo religioso, dell’affiliazione politica e, abbiamo aggiunto poi, dell’orientamento sessuale. Un’aggiunta che abbiamo potuto operare in virtù della forza della Dichiarazione che la rendeva capace di proiettare la sua luce nel futuro. In questo senso, la Dichiarazione era universale anche nel tempo. Ma oggi?
Un mondo più intollerante
Oggi un fatto emerge in maniera scontata: rispetto al 1948 viviamo in un mondo più interconnesso, più integrato, più interdipendente ma anche più intollerante. Più di prima, la nostra vita, di ciascuno di noi, è condizionata dalla vita degli altri, di tutti gli altri. La celebre frase di Martin Luther King “l’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia ovunque” è più che mai attuale. In questi ultimi 35 anni, con la fine della Guerra Fredda, nuovi diritti si sono affacciati e poi messi sotto la lente. Il modo in cui affrontiamo e comprendiamo i diritti umani si è anche evoluto, e abbiamo capito come alcuni diritti specifici richiedevano maggior attenzione di quanta ne ricevessero nella Dichiarazione e nelle convenzioni che ne sono scaturite: diritti delle donne, dei minori, dei disabili, della comunità LGBTQ+, dei detenuti, delle vittime dei cambiamenti climatici e della pulizia etnica, i diritti legati al mondo del lavoro, e quelli legati all’accesso alle nuove tecnologie, ai problemi che derivano da una sorveglianza occhiuta, il diritto alla privacy. Come pure la necessità di una nuova capacità di analisi del fenomeno migratorio e delle sue ricadute sui diritti umani, in un mondo, quello di oggi, che conta oltre 120 milioni di persone costrette alla fuga da guerre, clima e povertà. In questo contesto abbiamo messo in conto un aumento dei cosiddetti competitive rights: per esempio, il diritto di una bambina a non essere sposata in maniera forzata, o a subire una mutilazione genitale, in opposizione al diritto alla libertà di religione o di cultura; ancorché, come nei due casi citati, si tratta di una cultura di derivazione patriarcale che solo un ipocrita e discutibile relativismo culturale può accettare.
Mantenere una comprensione comune
Il comitato di redazione della Dichiarazione, presieduto da Eleanor Roosevelt e non del tutto “monopolizzato” da occidentali come è ora di moda accreditare (basta verificare l’origine dei suoi componenti nel contesto dell’epoca, a cominciare dal filosofo e drammaturgo cinese Peng-chun Chan che, con approccio confuciano, convinse i colleghi ad aggiungere nella seconda frase del primo articolo la parola “coscienza” dopo “ragione” e, in nome dell’universalità, a togliere qualsiasi riferimento a Dio) puntava, approfittando del clima favorevole dopo gli orrori delle due guerre mondiali e dell’Olocausto, a un documento organico diviso in tre parti: enunciazione dei diritti, la loro definizione nel diritto internazionale, gli strumenti d’attuazione. Messo sotto pressione dalle scadenze politiche, si è dovuto accontentare di varare il testo come lo conosciamo, vale a dire limitandolo alla prima parte. Nonostante l’amputazione, tra i risultati più grandi vi è quello di aver creato un contesto all’interno del quale anche chi non s’identificava con la formulazione poteva trovare dei riferimenti con i quali contro-argomentare che, tra l’altro, segnalava la necessità di riesaminare continuamente la rilevanza della definizione e degli standard che attribuiamo a ciascun diritto. In un mondo evolutivo era importante mantenere un common understanding, una comprensione comune dei diritti umani. Per questo la Dichiarazione è ancora attuale: perché ci aiuta a mantenere viva questa comprensione comune. Non a caso qualcuno l’ha definita “un documento vivente in un mondo che cambia [4] ” .
Italia inadempiente
Sappiamo che ci vollero 18 anni per tradurre i valori enunciati nella Dichiarazione in impegni vincolanti per gli Stati membri dell’Onu con i due Patti internazionali del 1966 dove si giunse, in piena Guerra Fredda, a un accordo sull’enunciato dei diritti nel loro spettro più ampio (economico e sociale, politico e culturale). Ce ne vollero altri dieci perché i Patti entrassero in vigore (1976) grazie al numero minimo di ratifiche nazionali necessarie (35). Noncuranti di questa svolta, gli Stati e i loro rappresentanti hanno continuato, nella loro grande maggioranza e a ogni latitudine, a ignorare o peggio a calpestare i diritti umani per ragioni di conflitti politici interni o per motivi geopolitici magari invocando l’interesse nazionale. In più, tenuto anche conto del carattere evolutivo dei diritti umani, gli strumenti di protezione generalmente utilizzati dagli Stati si sono dimostrati inadeguati nella loro difesa, perché eccessivamente statici. Da qui anche l’idea di creare uno strumento che fosse assolutamente indipendente dallo Stato e comunque dalle sue tre funzioni cardine (legislativo, esecutivo, giudiziario). Ma per mettere in pratica quest’idea ci volle lo scossone del crollo del Muro di Berlino, lo scongelamento dalla Guerra Fredda e la fine del bipolarismo. Alla Conferenza di Vienna del 1993, si riaffermò l’impegno a sviluppare istituzioni nazionali come strumenti di promozione e di diffusione della cultura dei diritti umani. I Principi di Parigi e la Dichiarazione di Vienna sono ritenuti, da allora, gli standard minimi per le istituende National Human Rights Institutions non ottenendo tuttavia rango di norme di diritto internazionale giuridicamente vincolanti. L’Italia, pur avendo sottoscritto la risoluzione AGNU n.48/134 del 1993, rimane a oggi scandalosamente e totalmente inadempiente, caso pressoché unico non solo in Europa ma nel mondo intero. E, parlando d’inadempienze, va ricordato che l’Italia è sempre rimasta in maniera poco virtuosa nel drappello di testa dei paesi violatori della Cedu e per numero di sentenze di condanna da parte della Corte.
Contrastare la delegittimazione del diritto internazionale
Per rispettare i diritti umani, lo stato di diritto e i principi democratici – per fare tutto questo – occorre che gli Stati che compongono le organizzazioni intergovernative ne rispettino gli statuti e mandati (prendendosi anche cura di aggiornarli!), quindi adempiano all’obbligo di farle funzionare efficacemente, le dotino delle necessarie risorse umane e finanziarie, ne consentano la democratizzazione di strutture e funzionamento.
Possiamo dire che ciò non è sempre avvenuto. Anzi, negli ultimi lustri abbiamo assistito non solo ad attacchi al multilateralismo e alle convenzioni internazionali, ma alla legittimità stessa del diritto internazionale, fatto questo che il nostro Presidente della Repubblica ha voluto autorevolmente stigmatizzare con interventi pubblici in relazione in particolare al conflitto in Ucraina. Perfino in paesi UE avevamo visto da qualche anno a questa parte alcuni leader decidere quali gruppi sociali fossero meritevoli di vedere i propri diritti riconosciuti e quali no, come se i diritti umani non fossero più, appunto, universali. Poi è arrivato Trump versione 2025 e la sua schiera elitaria di self-empowered changemakers spinti da interessi personali più che collettivi, e il poco che rimaneva è stato spazzato via nel giro di qualche dichiarazione. Con effetti anche da noi dove, sull’onda trumpiana, ci sono richieste di fuoriuscita da organizzazioni internazionali (OMS) e di messa in stato di accusa di altri (CPI), e in generale un’insofferenza per il diritto internazionale al quale ci siamo storicamente sempre conformati ma che ora alcuni ritengono un intralcio, come se fenomeni globali – cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, pandemie, automazione tecnologica dirompente, diseguaglianze, regressione democratica e guerre alle nostre porte: tutti tratti distintivi della nostra epoca in un contesto sociale in rapido mutamento, non ultima la questione del declino demografico in Italia e in gran parte d’Europa – possano essere meglio affrontati da strumenti nazionali. Abbandonare il multilateralismo per rintanarsi in nome di vaporosi interessi nazionali, magari in compagnia di qualche paese like-minded, è, come dicono gli anglofoni, “an easy way out”: di grande effetto nell’immediato ma controproducente a medio e lungo termine.
L’approccio “close to home”
Abbiamo avuto in Italia in tempi non sospetti un esempio di quest’insofferenza come diretta derivazione dell’ignoranza su come funzionano gli organismi internazionali. Nell’ottobre scorso, la Commissione sul razzismo del Consiglio d’Europa (ECRI) ha presentato il suo rapporto periodico sull’Italia nel quale denunciava un clima xenofobo e di odio nei confronti di diverse categorie (dal mondo Lgbt ai migranti in particolare africani), fenomeno peraltro ampiamente registrato anche in altri paesi sotto osservazione – il che dimostrava la sua trasversalità in Europa - e segnalava alcune pratiche di profilazione razziale da parte delle nostre forze dell’ordine. Ne è seguita una levata di scudi che ha purtroppo coinvolto perfino il Quirinale. Va ricordato che l’ECRI si limita a fare raccomandazioni e in questo rapporto riconosceva i passi avanti compiuti dall’Italia rispetto al rapporto precedente (2016) e valorizzava numerose buone pratiche istituite da allora. Non c’era quindi un pregiudizio anti-italiano. Le criticità segnalate erano serie, da affrontare con il rispetto che meritavano, non sollevando polemiche strumentali. In generale, come avviene negli altri paesi periodicamente scrutinati, forze politiche e istituzioni dovrebbero accogliere queste raccomandazioni come pungolo per migliorare, tra l’altro sono spesso ampiamente condivisibili per chiunque conosca la materia, per esempio il fatto che l’UNAR, la nostra equality body, non sia indipendente come dovrebbe essere in base alle direttive europee. Poi rimane il problema di fondo dell’assenza in Italia di una commissione nazionale indipendente sui diritti umani, come già detto, cosa che aiuterebbe ad affrontare e risolvere molte delle criticità segnalate dall’ECRI con un approccio close to home che dovrebbe piacere ai sovranisti di casa nostra troppo occupati a indignarsi per comprenderlo.
Responsabilità diffuse
Anche perché, gira e rigira, alla fine chi è responsabile dell’attuazione degli strumenti di protezione? Sono gli Stati. Sono loro i principali garanti dei diritti (attraverso le loro Costituzioni, le loro leggi…); sono gli Stati a firmare e ratificare le Convenzioni e a detenere poteri esecutivi ma quando i governi degli Stati non controllano più il territorio, o non hanno più legittimazione, o sono incapaci di erogare servizi pubblici essenziali, o semplicemente sono più interessati a reprimere che a proteggere, chi diventa responsabile della protezione dei diritti umani della popolazione? I diritti generano ondate successive di responsabilità a tutti i livelli: i portatori di doveri, sono diventati una moltitudine. Le diverse articolazioni degli Stati nazionali anzitutto, inclusi i livelli di governo inferiori (regioni, province, comuni), ma anche gli attori non statali: le imprese, i sindacati, le ong, il mondo dell’associazionismo. Infine ci sono le responsabilità dei detentori di diritti, vale a dire noi, i cittadini stessi. Per questo occorre coltivare indipendenza di giudizio e capacità di valutazione e di analisi rispetto a quanto accade attorno a noi ogni giorno. Su questo terreno l’istruzione è fondamentale: oltre a favorire lo sviluppo del pensiero critico e della creatività, l’apprendimento deve estendersi alla comprensione del pensiero sistemico e della teoria della complessità per acquisire il coraggio morale in grado di trasformare conoscenze e competenze in azione concreta.
Conclusioni
Scrive il filosofo e analista culturale Jianwei Xun che con Trump e i suoi epigoni, anche europei, la realtà è diventata gassosa: la natura stessa della verità viene ridefinita e il potere non comanda più attraverso le leggi: abita i simboli e si nasconde nei flussi emotivi [5] . Nell’anno in cui ricorrono i 75 anni della CEDU chiedere alle attuali leadership mondiali di recuperare lo spirito di quei tempi è francamente irrealistico. Si ricorda, con il rischio di essere omissivi, che in quattro anni – dal 1948 al 1951 – le leadership di allora furono capaci di adottare la Convenzione contro il genocidio, la Dichiarazione Universale, le Convenzioni di Ginevra, la Convenzione europea e di istituire il Consiglio d’Europa. Non c’è dubbio: nel prossimo avvenire sarà arduo promuovere il ritorno di un diritto basato sulla ragione, la logica e la prova scientifica. Questo non significa che coloro che pensano che i diritti umani non siano un optional ma vera “agenda politica”, per citare l’economista dello sviluppo Amartya Sen, debbano ora rassegnarsi alle sfacciate torsioni inflitte alla Storia – talmente sfacciate che al confronto la realpolitik è solo un pallido ricordo – e alle inevitabili diseguaglianze e discriminazioni generate dai rapporti di forza e di potere che ignorano qualsiasi parvenza di diritto umanitario. Non si tratta di sterili reazioni da anime belle o di droit-de-l’hommisme ma di resistenza degli “inermi ma non inerti” di pannelliana memoria, di chi insomma continua a ritenere i diritti fondamentali come alfa e omega di ogni buon governo e che si preoccupa di un mondo che va al galoppo verso l’ignoto.
Il Forum, promosso dal CeSPI, invita vittime/attivisti/esperti/studiosi/giuristi/addetti ai lavori a riflettere sugli spunti emersi e a formulare proposte concrete su come rafforzare gli strumenti di protezione internazionale e contrastare ogni tentativo di delegittimazione dei principi della Carta dell’ONU e del diritto internazionale più in generale.