Cure per la democrazia: dove crescono le nuove forme della partecipazione
Sempre più Paesi puntano sul coinvolgimento dei cittadini attraverso consultazioni, giurie popolari e bilanci partecipativi. Il caso italiano: il dibattito pubblico e la riforma del Codice degli appalti.
di Andrea De Tommasi
Quando Luiz Inacio Lula da Silva, il 30 ottobre 2022, è stato eletto di nuovo presidente del Brasile sconfiggendo di misura Jair Bolsonaro, i sostenitori della democrazia partecipativa hanno tirato un sospiro di sollievo. Tra gli impegni elettorali di Lula c’era, infatti, quello di smantellare il famigerato “bilancio segreto”, che aveva distribuito fondi ai legislatori in cambio del sostegno al governo, e ripristinare il bilancio partecipativo. Se la proposta diventerà realtà, il bilancio partecipativo tornerà alla ribalta proprio nel Paese dove è nato (nel 1989, nella città di Porto Alegre) e si è diffuso negli anni, prima del drastico ridimensionamento dovuto a minori investimenti e budget locali limitati. Nel frattempo iniziative analoghe sono state attuate in altri città e Paesi del mondo, dal Canada al Sudafrica. Mentre a livello di società civile l’International budget partnership, una rete che coinvolge oltre 150 Paesi (per l’Italia partecipa la campagna Sbilanciamoci), sviluppa periodicamente i cosiddetti “Citizens budgets” per coinvolgere le comunità nella formazione delle leggi finanziarie.
Il bilancio partecipativo è soltanto una delle tante pratiche per promuovere l’impegno della cittadinanza al processo decisionale democratico. Per esempio, l’assemblea dei cittadini scozzesi ha formulato raccomandazioni su varie questioni costituzionali, tra cui il processo per un futuro referendum sull’indipendenza, che sono state prese in considerazione dal governo. Il senato belga ha istituito un’assemblea dei cittadini per esaminare le proposte di riforma elettorale. Il “mini-pubblico” della regione tedesca del Nord Reno-Westfalia ha presentato una serie di proposte su come lo Stato potrebbe affrontare il tema del cambiamento climatico. I forum in cui le persone si riuniscono per discutere e prendere decisioni su questioni che interessano le loro comunità si sono affermati nel Regno Unito, in Australia e in Canada, Paese che ha una forte tradizione di democrazia deliberativa e ha tenuto diversi referendum nazionali in passato.
Le piattaforme di deliberazione online hanno invece trovato una loro espressione in Grecia, dove VouliWatch ha offerto ai cittadini uno spazio per esprimersi sulle proposte avanzate dai membri del parlamento. Altri modelli come petizioni online e crowdsourcing si stanno sperimentando e attuando in Europa, ma è la Francia il Paese che si distingue per il suo dinamismo. Il caso più noto è la piattaforma online Grand débat citoyen, che ha ricevuto un gran numero di contributi da parte dei cittadini su una serie di questioni politiche, un modello a cui si è ispirata anche la Conferenza sul futuro dell’Europa. E nell’aprile 2019, sulla scia delle agitazioni provocate dal movimento dei Gilet gialli, è stata presa la decisione di creare la Convention citoyenne pour le climat, composta da 150 cittadini francesi estratti a sorteggio. Il loro mandato era quello di definire una serie di misure per raggiungere una riduzione di almeno il 40% delle emissioni di gas serra entro il 2030 (rispetto al 1990), in uno spirito di giustizia sociale. Alla fine dei lavori, il presidente francese Macron ha accolto 146 proposte su 149 ma la possibilità di tradurle in atti legislativi è stato ostacolato da una parte della classe politica.
In Italia
In passato molti processi di consultazione sono stati promossi spontaneamente dalle regioni o dai comuni: dall’avvio dei cosiddetti “contratti di quartiere”, che hanno tra l’altro interessato alcuni quartieri periferici di Roma (giunta Veltroni) e del milanese, alle assemblee pubbliche sulle decisioni relative alla rigenerazione urbana dei territori. Ma soprattutto su scala nazionale l’approccio deliberativo ha mostrato una certa fragilità, con poca capacità di condizionare le politiche. Il dibattito pubblico sulla Gronda di Genova è stato il primo caso di débat public applicato ad una grande infrastruttura in Italia, affidato ad una Commissione indipendente coordinata dal politologo Luigi Bobbio.
Nel 2018 in Italia è stato introdotto il Dibattito pubblico obbligatorio sulle grandi opere infrastrutturali. Tre anni dopo il ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili guidato da Enrico Giovannini ha rivitalizzato il ruolo e le funzioni della Commissione nazionale per il dibattito pubblico, anche nella convinzione che l’utilizzo del Dp agevolerà l’attuazione del Pnrr. Lo strumento ha iniziato a funzionare ed è stato utilizzato, per esempio, per discutere lo studio di fattibilità tecnica ed economica relativa al nuovo stadio di Milano: 14 incontri, 40 giorni di dibattito pubblico e una relazione conclusiva sul tavolo del comune.
In questi giorni sono in corso le audizioni informali alla Commissione ambiente della Camera sul dibattito pubblico. Le associazioni, tra cui l’ASviS, hanno accolto con preoccupazione il nuovo testo del Codice degli appalti, che prevede una serie di misure per la semplificazione dei protocolli in materia di opere pubbliche e avrà un forte impatto anche sullo strumento del dibattito pubblico. Come sintetizzato in questa nota di Aip2, l’associazione italiana per la partecipazione pubblica, le principali proposte sono: ripristinare la Commissione nazionale per il dibattito Pubblico; eliminare la limitazione alla partecipazione ai soli portatori d’interesse, estendendola anche ai singoli cittadini; eliminare l’obbligo di svolgere il Dp solo in modalità̀ telematica e prevedere tempi adeguati.
Coinvolgere le persone
Il successo e l’impatto di questi processi partecipativi variano da Paese a Paese e possono cambiare nel tempo, a seconda di fattori economici e sociali. Incidere sulle politiche finali è difficile, anche perché l’attuazione delle proposte dipende dal livello di sostegno politico e dall’azione di follow-up dei decisori pubblici. Ma alcuni fattori delle moderne democrazie (indebolimento del rapporto tra eletto ed elettore, una certa sfiducia nelle istituzioni democratiche, vari aspetti di populismo) lasciano prevedere un crescente interesse per la democrazia deliberativa, attraverso lo sviluppo di nuove istituzioni e meccanismi più inclusivi. Il report Government at a Glance 2021 dell’Ocse mostra che solo il 51% dei cittadini dei Paesi membri si fida del proprio governo e che il perfezionamento delle pratiche di consultazione potrebbe migliorare la trasparenza e la fiducia nelle istituzioni pubbliche. E i Paesi sembrano adeguarsi: l’uso delle consultazioni virtuali nell'elaborazione delle politiche normative è aumentato dal 2017 al 2020 (ultimi dati disponibili): dal 35% al 62% dei Paesi Ocse per le consultazioni in fase iniziale e dal 41% al 57% dei paesi per le consultazioni in fase avanzata
Come osserva Alberto Martinelli, professore emerito di Scienza della politica e sociologia alla Università statale di Milano, “i momenti elettorali sono fondamentali, ma consentono una partecipazione comunque limitata. Gli esperimenti di democrazia deliberativa possono integrare questi sistemi. Certamente non sono di facile attuazione, ma risultano importanti per due motivi: il primo è questa crescente disaffezione verso la politica, la seconda ragione è l’indebolimento delle forme di partecipazione democratica che avvenivano all’interno dei partiti, i soggetti fondamentali della nostra democrazia rappresentativa”. Secondo Martinelli, il tema dell’astensionismo che caratterizza le elezioni italiane è un ulteriore elemento da tenere in considerazione: “Un tempo il corpo elettorale votava in percentuale molto più alta. Essendosi indebolita questa componente, è importante che tale funzione venga svolta dalla società civile. Qui le associazioni hanno un ruolo importante, sono lo strumento per coinvolgere i cittadini su problemi concreti”.