La partecipazione digitale può irrobustire la democrazia?
Le piattaforme online potrebbero riavvicinare la cittadinanza alla cosa pubblica, ma esistono dei limiti difficili da superare, dettati dalle modalità dei software e dalla capacità delle istituzioni di utilizzare questi strumenti.
di Milos Skakal
Apparsa con la nascita e la costruzione degli Stati Uniti d’America nella seconda parte del XVIII secolo, la democrazia rappresentativa liberale è stata la forma di governo che si è opposta negli ultimi due secoli alle autocrazie, nel tentativo di fissare con regole costituzionali il potere sovrano nel concetto di popolo e nel delegare agli eletti la sua esecuzione. Da alcuni anni sembrerebbe consolidarsi un progressivo processo di deterioramento di questo sistema di gestione della cosa pubblica, sia dall’esterno che dall’interno. Da una parte, dopo anni di espansione, sta diminuendo la percentuale della popolazione mondiale che vive sotto regimi democratici. Dall’altra, le democrazie vivono conflitti interni rappresentati soprattutto dal crescente populismo reazionario, dall'astensionismo e dalla sfiducia nelle istituzioni democratiche.
Nel 2020, in una intervista rilasciata su questo sito, Alberto Martinelli affermava che di fronte all’indebolimento dei partiti politici e alla sfiducia dell’elettorato nei loro confronti, il futuro della democrazia dipende dalla “rivalutazione della professione politica e dal coinvolgimento degli elettori per approfondire i problemi”. La crisi dei partiti è un processo che deve interrogare prima di tutto i partiti stessi, mentre forme di partecipazione della cittadinanza, rese possibili da nuove tecniche digitali, sono già realtà in molti Paesi e in varie amministrazioni locali. Ma la democrazia rappresentativa può davvero cercare nelle piattaforme di partecipazione digitali un canale per riavvicinare i cittadini alle istituzioni? Quali sono gli ostacoli che sorgono dai modelli che vengono applicati oggi giorno, e quali potranno essere le insidie del futuro?
Evoluzione del tasso della popolazione mondiale che vive in regimi democratici (democrazie elettorali o liberali).
Fonte: Our world in data
Tre generazioni di reti digitali
Prima di proseguire è importante dare una breve definizione del concetto di piattaforme digitali democratiche, perché l’avvento di Internet alla fine degli anni ‘90 è stato seguito da diverse fasi di sviluppo delle tecniche di partecipazione. In un articolo pubblicato sul sito Dinamopress nel 2017, Arnau Monterde, ricercatore e supervisore della piattaforma di partecipazione online Decidim (ovvero decidiamo), messa a punto dal comune di Barcellona, distingue tre generazioni di piattaforme di partecipazione, da lui chiamate “reti digitali”. La prima coincide con la diffusione mondiale di Internet: “Negli anni Novanta, il World wide web (www), la prima rete digitale con una portata di massa, incarnò un modello di prima generazione, quello delle reti informazionali”. Si parla di pagine immateriali, accessibili da terminali (computer) diffusi in tutto il mondo, da cui si potevano raccogliere informazioni: in altre parole la preistoria di Internet come lo conosciamo oggi. A differenza delle reti di seconda generazione, ovvero i cosiddetti social network nati a cavallo tra i due millenni (Twitter, Facebook, YouTube, ecc), la prima fase di utilizzo di Internet come strumento di organizzazione politica mancava della possibilità di poter interagire con l’interfaccia virtuale. Tra la prima e la seconda generazione vi è quindi stato un salto di qualità: gli utenti sono diventati contestualmente fornitori e ricettori di informazioni. Politicamente, la prima generazione delle reti digitali è collegata soprattutto al ciclo di lotte del movimento “No global” (sono da citare le giornate di manifestazioni di Seattle nel 1999 e di Genova nel 2001).
La seconda generazione fa invece riferimento nel senso comune alle Primavere arabe, dove i social network sono stati uno strumento fondamentale per l’auto-organizzazione delle masse scese in piazza contro i regimi autocratici che li governavano.
Manifestante a piazza Tahrir (Cairo, Egitto) nel febbraio del 2011.
Traduzione dall’arabo: “Facebook sostiene tutte le vittime dell’oppressione”
Fonte: flickr.com
La terza generazione di reti digitali “nasce” con l’intento di continuare a costruire spazi virtuali di partecipazione senza che questi siano vincolati a piattaforme private, il cui funzionamento è determinato da interessi economici particolari. Ma soprattutto, a differenze della prima e della seconda generazione, la sua applicazione politica è riuscita, spesso ma non sempre, a tramutarsi in forme istituzionali e a superare la sola auto-organizzazione di piazza. Si tratta di tentativi di costruzione di spazi dove idee, proposte, emendamenti e discussioni sono direttamente connessi con gli enti pubblici, in modo da creare un rapporto alla pari tra cittadinanza e rappresentanti politici. Monterde afferma che “Decidim pone al centro della sua costruzione il vincolo politico e collettivo. Non interpella individui in rete ma un noi, un noi che decide. In casi come quello di Decidim, le reti politiche permettono di intervenire nelle istituzioni e nella costruzione di politiche pubbliche”.
Il sogno della democrazia online
“Si può avere un gruppo non precisato di persone che interagiscono e che attraverso la loro partecipazione riescono a prendere una decisione coerente?” Questa è la domanda che pone Pietro Speroni di Fenizio, matematico e specialista di e-democracy, contattato da Futura network per approfondire l’argomento della partecipazione politica digitale. La questione da lui sollevata si trova nel cuore del dibattito intorno alla costruzione di spazi virtuali di deliberazione politica. “L’idea, il sogno, è sempre stato quello di decidere insieme. Ma esiste un elemento molto importante: la tecnologia di questi strumenti decisionali non è un dettaglio irrilevante, anzi è fondamentale. Se metti delle persone insieme online e gli dici di decidere qualcosa, il modo in cui verranno prese le decisioni sarà influenzato da come funziona il software. Quest’ultimo ha un effetto sociale e politico nel processo di decision making”. Secondo Speroni di Fenizio, le insidie legate alla e-democracy non sono solo connesse alla consapevolezza e alla postura delle persone che partecipano alle piattaforme. A essere altrettanto determinanti sono le infrastrutture digitali, cioè i software, che rendono questo incontro possibile. Il rischio più grande è in realtà rappresentato dalla possibilità stessa di poter esprimersi su un determinato argomento perché ciò può comportare vari rischi, come per esempio la polarizzazione senza possibilità di compromesso delle posizioni dei partecipanti o l’avvitamento del dibattito in polemiche senza via d’uscita. “I software che funzionano meglio sono quelli dove la possibilità di rilasciare commenti è assente, o adeguatamente limitata”, conclude Speroni di Fenizio. In altre parole, uno dei limiti che riscontra l’applicazione di processi decisionali partecipati online è la struttura stessa dello strumento, perché essa è il campo da gioco nel quale si determina la riuscita o il fallimento dell’allargamento della platea che fa parte dell’iter deliberativo.
Se non gestito, se non scelto, il popolo della rete potrebbe diventare un demos caotico e senza bussola incapace di prendere decisioni ponderate? L’utilizzo della tecnologia per dare la possibilità ai cittadini di far parte dei processi decisionali configura nuovamente uno scontro tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta? Forse guardare alle possibilità conferite dalle reti digitali con uno sguardo dicotomico potrebbe nascondere alcuni aspetti fondamentali della trasformazione della democrazia. Stefano Rodotà, in un articolo pubblicato sul sito dell’enciclopedia Treccani, riflettendo sul concetto di tecnopolitica (ovvero sull’applicazione delle tecnologie nella sfera politica), affermava già nel 2009 che “siamo ormai oltre la logica binaria democrazia rappresentativa/democrazia diretta”. Bisogna piuttosto studiare il delinearsi di “dinamiche più complesse, che possono produrre effetti diversi: integrazione della tradizionale democrazia rappresentativa con strumenti di e-participation; oppure costruzione di una sfera politica separata, che assume soprattutto funzioni di rappresentanza che sarebbero state perdute dalle istituzioni tradizionali, così private di una legittimazione forte e svuotate del loro ruolo storico”. In un certo modo premonitore, l’intervento di Rodotà mira in particolare a mettere in rilievo da una parte le possibilità di alimentare le democrazie rappresentative con nuovi metodi di partecipazione, e dall’altra i rischi legati all’esodo della cittadinanza verso nuovi contenitori di deliberazione che diventerebbero i “veri” strumenti di concertazione. L’analisi del costituzionalista vuole portare la politica a interrogarsi sui possibili preconcetti che possono essere attribuiti alle forme di partecipazione digitale. Secondo Rodotà, se non accolti, questi strumenti potrebbero dare vita a spazi separati dalle istituzioni, ma non per questo senza legittimità, nel caso in cui la partecipazione diventasse molto alta. Se il primo scenario sembra essere un invito a implementare nuovi strumenti di partecipazione, il secondo mostra come il mancato assorbimento da parte della politica di nuovi canali digitali di coinvolgimento della popolazione potrebbe portare a un ulteriore allontanamento tra cittadini e istituzioni.
Prospettive digitali per un futuro democratico
Se l’utilizzo di tecnologie che coinvolgono la cittadinanza nei processi politici decisionali è realtà in amministrazioni locali come Barcellona o Reykjavik, capitale dell’Islanda, dove da ormai più di dieci anni viene utilizzata la piattaforma Better Reykjavik, sono invece pochi gli esperimenti a livello nazionale e sovranazionale. Uno fra questi è rappresentato dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, che sembrerebbe un primo passo per portare l’Unione europea a intraprendere un processo di allargamento democratico e digitale dell’esperienza decisionale. Si tratta di un meccanismo eccezionale perché, senza modificare gli organi politici dell’Unione, dà spazio, in modo puntuale, a un esperimento di coinvolgimento della cittadinanza nella stesura di proposte e nella discussione delle loro modifiche attraverso una piattaforma digitale multilingue. L’obiettivo di questo percorso è di avviare discussioni e dibattiti su nove nodi da sciogliere per poter costruire un futuro migliore per tutta l’Unione. La particolarità di questo processo è legata al fatto che qualsiasi cittadino può inoltrare, tramite un iter strutturato, la propria proposta al panel istituzionale che discute uno dei temi stabiliti. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen auspica che questo meccanismo porti “tutti i cittadini europei a contribuire attivamente alla Conferenza sul futuro dell'Europa e a svolgere un ruolo di primo piano nel definire le priorità dell'Unione europea”. Si tratta senz’altro di un tentativo coraggioso e su larghissima scala, che recepisce il desiderio di partecipazione della cittadinanza coniugandolo con nuove forme di coinvolgimento rese possibili dalle tecnologie digitali.
Ma nel prossimo futuro le democrazie rappresentative riusciranno a tenere alta l’attenzione sulle nuove forme di interazione tra elettorato e organi politici? Avranno il coraggio di dare la possibilità alla cittadinanza di potersi esprimere oltre le forme tradizionali del voto e dell’affiliazione partitica? Nell’immediato le risposte a queste domande non sono a portata di mano, perché sono connesse ai mutamenti politici che avverranno all’interno delle istituzioni e nel tessuto sociale che le sostiene. Di sicuro il mantenimento della partecipazione digitale sarà legato sia alle innovazioni che i programmatori potranno apportare alle piattaforme democratiche online, sia alla volontà politica di istituzionalizzare a livello costituzionale le nuove forme deliberative. Due interrogativi che mostrano chiaramente il continuo evolversi della nozione stessa di democrazia.
di Milos Skakal
*Fonte dell'immagine di copertina: ilpopolodellaliberta.it