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La collaborazione tra gli Stati democratici può creare un nuovo scenario geopolitico?

Nel contesto del rilancio del multilateralismo, Gran Bretagna e Stati uniti propongono una “collaborazione rafforzata” tra le democrazie. Sullo sfondo l’idea di contenere il futuro predominio cinese. Ma il percorso non è facile.

di William Valentini

Sono anni di grande mutazione nello scenario geopolitico. Se da un lato il periodo della presidenza Trump ha visto il crescente isolazionismo del principale attore della politica internazionale, dall’altro, a cavallo tra gli ultimi mesi del 2020 e l’inizio del 2021, sono stati firmati due importanti accordi, l’Afcta e il Rcep, che formeranno in Asia e in Africa due gigantesche aree commerciali. Accordi che segnalano tra l’altro anche una poderosa ripartenza della diplomazia multilaterale e un deciso cambio di rotta rispetto alla linea dell’ex presidente degli Stati Uniti, che preferiva accordi bilaterali.

In questo scenario, dopo la separazione più o meno consensuale da Bruxelles, il premier britannico Boris Johnson sta portando avanti un progetto che convertirebbe il vertice annuale del G7 in un D10, riunendo intorno a un tavolo “un gruppo di democrazie che la pensano allo stesso modo per promuovere interessi condivisi e affrontando le sfide comuni”, ha spiegato una nota uscita da Downing street.

Il gruppo sarebbe composto dalle dieci democrazie leader nel mondo (gli attuali membri del G7, più Corea del Sud, India e Australia). La proposta si inserisce in una fase in cui l’insediamento di Joe Biden può segnare un cambio di passo in direzione del multilateralismo, con l’abbandono dell’approccio unilaterale alla politica estera, incarnato dallo slogan “America first” reso celebre dell’ex presidente. Con Trump, “i risultati non sono stati migliori per il popolo americano”, ha spiegato Victoria Nuland, ex funzionaria del dipartimento di Stato dell'amministrazione Obama, durante un webinar della Brookings institution del 16 dicembre. “L'amministrazione Biden si insedia con la sensazione che il momento sia decisivo di fronte alla sfida degli autocrati emergenti”, ha aggiunto, indicando l'opportunismo geopolitico di Russia e Cina, che “hanno avuto quattro anni per approfondire i loro legami non solo nel nostro sistema di alleanze, ma anche per cambiare le regole globali del mondo”.

 

Il “nemico” a Oriente e su cosa intervenire

Nonostante il progetto di allargare il G7 anche ad altre democrazie circoli in numerosi think tank statunitensi da quasi un decennio, scrive il Guardian, sono stati proprio gli ultimi sviluppi delle relazioni internazionali a spingere il premier Johnson a lanciare la proposta. Mentre Pechino cerca di deviare l’attenzione internazionale dalla sua cattiva gestione dell’inizio della pandemia a Wuhan e dalla sua mancanza di trasparenza sui dati, rimbalzano voci e notizie relative ad una presunta campagna fatta di diplomazia, propaganda e disinformazione online contro gli Stati Uniti e i suoi partner alleati. Notizie relative a mascherine di fabbricazione cinese difettose e di altre attrezzature mediche malfunzionanti sono circolate ampiamente in tutto il mondo durante la prima fase della pandemia. Ciò ha inevitabilmente attivato una riflessione sull’opportunità e sui rischi associati all’affidare o meno infrastrutture strategiche come il 5G e catene di approvvigionamento critiche alla Cina. Dal Canada alla Germania, i governi stanno già riconsiderando se consentire a Huawei di realizzare le reti telematiche di prossima generazione. Nel frattempo, Stati Uniti, Unione europea e Giappone stanno valutando le opzioni per ridurre la dipendenza dalla Cina per la fornitura di prodotti farmaceutici e attrezzature mediche e forse anche per altri prodotti critici, spiegano Erik Brattberg e Ben Judah su Foreign policy.

Il fulcro del possibile “concerto di democrazie” che il primo ministro britannico vuole mettere insieme avrà come obiettivo l’apertura di un dibattito intorno allo sviluppo di alternative 5G convenienti e tecnologicamente sofisticate rispetto ai prodotti cinesi, rafforzando contestualmente la collaborazione dei governi e dell'industria all'interno del gruppo dei dieci Paesi. Mentre la lotta al cambiamento climatico e la promozione dei valori democratici saranno le aree di azione sulle quali punterebbe la nuova alleanza. Charlie Cooper, del sito Politico, ricorda che su questi temi si verifica una importante convergenza anche con l’azionista di maggior peso dell’eventuale D10, che rimarrebbero gli Stati Uniti. Per Brattberg e Judah l’accordo vorrebbe istituire e promuovere catene di approvvigionamento globali per alleviare la dipendenza dai prodotti made in China, spostando determinate produzioni al di fuori della Cina in modo coordinato, puntando, contestualmente, su modelli di sviluppo sostenibili voluti dall’amministrazione britannica.

Tra le ragioni per cui la proposta di Johnson potrebbe essere “l’idea giusta”, oltre al fatto di trovare il totale appoggio della politica internazionale di Biden, secondo Brattberg e Judah c’è l’evidenza che l’alleanza D10 non sarebbe in chiave dichiaratamente anti-cinese: tutte le potenze democratiche concordano ampiamente di avere un problema che non possono risolvere rispetto alle catene di approvvigionamento di prodotti strategici e rispetto alla tecnologia 5G cinese.  Per questo l’alleanza “è una piattaforma che potrebbe decollare in tempi relativamente brevi, perché attrarrebbe sia le democrazie che hanno rapporti stretti con Pechino sia i ’competitor’, perché ridurre attivamente queste due vulnerabilità strategiche e le accese preoccupazioni dell'opinione pubblica può contribuire a ridurre le tensioni future con Pechino”. Inoltre, l’attenzione ai temi legati allo sviluppo sostenibile e green dell’economia garantirebbero una convergenza con le leggi di cui si sta dotando l’Unione europea.

 

I nodi al pettine

Secondo un articolo di Patrick Wintour sul Guardian tra i governi che si sono mostrati più scettici sul nuovo accordo, al momento in cui è stata formulata, c’è quello italiano presieduto da Giuseppe Conte, visti i forti legami economici tra Roma e Pechino. Racconta Wintour che i diplomatici della Farnesina avrebbero espresso la preoccupazione che questo nuovo formato venga percepito come il mattone di una nascente alleanza anti-cinese nell’Indo-Pacifico. Le diplomazie europee, con quella francese e italiana in testa, secondo questa tesi saranno in prima linea per garantire che il G7 non venga trasformato in modo permanente, anche per la notevole autonomia che l’Ue ha dimostrato nel gestire la propria politica estera nei confronti della Cina: a dicembre Bruxelles ha concordato un accordo di investimento con Pechino procedendo in maniera del tutto indipendente rispetto all’amministrazione Biden, che si insediava proprio in quei giorni. In un documento per l'Institut Montaigne, l’ex ambasciatore Michel Duclos e il politologo Bruno Tertrais hanno scritto: "Inutile dire che il primo ministro Johnson non mancherà di preparare un'agenda per il G7 (che la Gran Bretagna presiede quest’anno) che potrebbe piacere agli americani, includendo così una dimensione pro-democrazia”.

Ma è proprio il principio della democrazia a mettere in dubbio il principio stesso del G10. Da novembre, infatti, spiega Guido Tramballi dell’Ispi, centinaia di manifestazioni hanno bloccato le maggiori città indiane. La risposta del governo di Nuova Delhi è stata durissima, svelando “la crescente natura illiberale di Nerendra Modi e del suo modello di nazionalismo indù. Chiuso Internet, denunciati giornali e giornalisti (il caso del magazine Caravan), insofferenza manifestata verso ogni legittima critica, brutalità poliziesca. Essendo territorio della capitale nazionale, la polizia di Delhi dipende dal ministro degli Interni Amit Shah, ultra-nazionalista, induista radicale e ideologo di Modi”. Nel Paese, definito tradizionalmente come la più grande democrazia del mondo, le reazioni al crescente scetticismo internazionale per le iniziative di Modi hanno suscitato una levata di scudi in difesa del presidente, espressione della destra induista.

La questione dei diritti umani è un freno anche per il “summit della democrazia” che Joe Biden ha promesso di ospitare nei prossimi mesi. In un articolo pubblicato dall’editorialista Madhav Das Nalapat sul giornale indiano Sunday times si spiega come “il primo ministro Johnson ha ragione nel porre l'India come attore centrale in tale alleanza, in contrasto con quelli nel suo Paese e altrove che si confondono tra l'India e il Pakistan e parlano del primo come il Paese in cui le minoranze stanno scomparendo e dove la supremazia religiosa regna. Si tratta di un Paese con 240 milioni di minoranze religiose, tra le quali alcuni dei cittadini più influenti (per non parlare dei più ricchi) del Paese”. Tuttavia, è del 16 febbraio la notizia secondo cui la polizia locale avrebbe arrestato Disha Ravi, la giovane organizzatrice dei Fridays for future indiani, che è stata posta sotto detenzione a causa delle sue posizioni in favore delle proteste dei contadini e di una politica molto più attenta alle questioni ambientali.

Il nuovo D10, secondo il giornale britannico Financial Times, servirebbe a ribadire il ruolo degli Usa di “leader del mondo libero”.  Tuttavia scrivono gli autori nel pezzo, segnalato anche da Gianluca Mercuri sulla "Rassegna stampa" del Corriere della Sera, “Biden e il suo team farebbero meglio ad accantonare in silenzio i loro piani per il vertice, almeno per il momento. I problemi relativi all’accordo diventeranno evidenti non appena si tenterà di redigere l'elenco degli invitati. È difficile immaginare di tenere un simile vertice senza invitare l'India o la Polonia. Sono entrambi i principali alleati americani che tengono elezioni regolari. Allo stesso tempo però, ci sono domande legittime sull'erosione dei valori democratici in entrambi i Paesi, compresa la libertà di stampa e la protezione dei diritti delle minoranze. Ignorare questioni come queste farebbe sembrare gli Stati Uniti ipocriti e potrebbe effettivamente danneggiare la democrazia nei Paesi interessati. Ma rimproverare i leader di India e Polonia a un vertice sulla democrazia significherebbe che l'intero esercizio ha creato divisioni, piuttosto che unità - l'esatto opposto di ciò che si intende”.

 

Democrazie e realpolitik

“Trent'anni fa alle democrazie avanzate è stato detto che avevano raggiunto la 'fine della storia' e che il continuo progresso della libertà era inevitabile", ha scritto Anders Fogh Rasmussen, ex segretario generale della Nato, in un editoriale sul Wall street journal pubblicato alla fine dell’anno. Tuttavia, aggiunge il diplomatico, “è avvenuto il contrario: la libertà si è ritirata mentre l'America ha ceduto il suo posto di leader globale”, ponendo continuamente questioni di stabilità nel network di alleanze dell’area atlantica.

In questo senso, il caso della Turchia è emblematico. Ankara è parte attiva della Nato, alla quale contribuisce mettendo a disposizione le sue forze armate: un esercito di 400 mila unità. Contestualmente, però, già nel 2018 l’intellettuale e giornalista Asli Erdogan (omonima del presidente) non lasciava molte speranze al futuro politico del proprio Paese: “la democrazia in Turchia è morta”.

Per il futuro è giusto aspettarsi una fase di allontanamento della Turchia dalla sfera degli interessi occidentali. Come scrive Emanuel Pietrobon sul sito insideover.com, il nuovo protagonismo di Ankara ha portato a una mediazione con la Russia, che le ha concesso maggiore spazio per impedire che le diplomazie occidentali e i partiti più vicini alle posizioni dell’Ue potessero riprendere spazio nei Paesi dell’ex Patto di Varsavia, come è avvenuto in Moldavia a novembre. Tuttavia, aggiunge Pietrobon, l’obiettivo del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan “è e resta l’allontanamento dall’Occidente, un blocco di civiltà nel quale la Turchia ha fatto ingresso per ragioni di sopravvivenza politica e geopolitica e che, venuta meno la guerra fredda, ha perduto progressivamente la propria funzione storica”.

 

di William Valentini

mercoledì 17 febbraio 2021