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Le iniziative per preservare il patrimonio audiovisivo e i documenti digitali

L’Italia deve investire su formazione del personale, coordinamento e infrastrutture dati. La strategia del Piano nazionale e il difficile percorso verso un modello globale.

Cosa resterà dell’enorme patrimonio d’immagini e film del Novecento? Quale futuro per la sterminata quantità di contenuti digitali che oggi stiamo producendo? Esistono certamente le istituzioni deputate a raccogliere questa sfida: i musei, gli archivi, le biblioteche e i luoghi della cultura in generale. Ma la rete Internet, le piattaforme web, le tecnologie digitali hanno subito significativi cambiamenti di contesto. Chi opera nell’innovazione, nella ricerca non può che ritenerli essenziali per dare risposte a lungo termine. Come ha scritto Giorgio Graditi, direttore del Dipartimento Tecnologie energetiche di Enea, la transizione digitale “rappresenta un percorso necessario e indispensabile per dare risposte alla complessità che si genera nella gestione dei beni culturali. Uno sforzo notevole va nella direzione di catalogare i beni culturali mediante opportune basi di dati, che consentano di disporre di un inventario dei beni stessi, volto non solo ad implementare la documentazione, ma a svolgere anche un ruolo di supporto alle attività di studio, formazione, ricerca, monitoraggio, diagnostica, restauro, tutela e valorizzazione”.

È utile distinguere tra il materiale precedente al periodo delle digitalizzazioni e il patrimonio digitale. Il primo filone è legato alla storia tecnologica delle vecchie pellicole: esistono sistemi collaudati di conservazione, duplicazione e restauro, che permettono il riversamento dei materiali su archivi digitali. Le opportune correzioni in termini di coloratura arrivano con gli algoritmi. In Italia ci sono l’Archivio nazionale del cinema d’impresa a Ivrea, la Cineteca di Bologna e ovviamente le Teche Rai, grande deposito nazionale. Migliaia di documenti visivi (immagini, film, cortometraggi) che diventano testimonianze del nostro recente passato. “Quando gli archivi stanno digitalizzando le loro collezioni”, ha spiegato Natalia Bianchi, tecnica della digitalizzazione, a margine dell’ultima Fiaf Film Restoration Summer School, “stanno plasmando il futuro”, aggiungendo che “gli strumenti digitali e la tecnologia oggi disponibili ci consentono di manipolare l’immagine fotogramma per fotogramma, come mai prima d'ora. Si possono risarcire i danni e il deterioramento che l'uso, il tempo e le inadeguate condizioni di conservazione hanno prodotto sulla pellicola, ottenendo una copia che riproduca il più fedelmente possibile le qualità fotografiche di un elemento originale”.

Sul piano della conservazione del patrimonio digitale c’è molta strada da fare. Le sfide più impegnative sono la necessità di mantenere l’autenticità dei documenti (software sempre più accurati), la reperibilità (che si tratti di materiale fisico, ibrido o solo digitale), la semplificazione, i costi (trasferimenti da un software all’altro) la tutela della riservatezza (pirateria e furti di proprietà intellettuale). Insomma, i vantaggi della digitalizzazione sono effettivamente molti: le informazioni possono essere facilmente condivise; le aziende possono risparmiare denaro riducendo l’uso di documenti cartacei. Ma il digitale di per sé non è una garanzia di semplificazione né di economia, perché fa affidamento sulla tecnologia che può essere costosa e difficile da mantenere su larga scala.

Un cambio di stagione potrebbe essere sancito dall’adozione di strategie di lungo periodo comuni a livello internazionale. Risposte che però finora sono mancate. “La politica condivisa a livello europeo esiste soprattutto sul fronte della tutela della riservatezza”, dichiara a FUTURAnetwork Giovanni Paoloni, docente di Archivistica generale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma. “La condivisione di regole o di pratiche a livello comunitario è un tentativo in corso. L’Europa è avviata su una buona strada. La mia opinione è che questa è una materia su cui sarebbe necessario un coordinamento a livello globale. Certo, il percorso appare difficile: da un lato Europa, Cina e Stati Uniti hanno modelli socio-economici diversi, d’altra parte c’è un’oggettiva divergenza di interessi. Se nel frattempo si facesse strada un modello condiviso per macroaree sarebbe già un grande sviluppo”.

E in Italia? La trasformazione digitale del patrimonio culturale è una parte importante del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ci sono i bandi per digitalizzare gli archivi del catasto e le biblioteche e una strategia per migliorare la fruizione dei beni e l’esperienza dell’utente: “Stiamo puntando a due aspetti fondamentali: dati e servizi. Solo attraverso una gestione matura e avanzata dei dati della cultura possiamo creare nuovi servizi che vadano incontro a nuovi bisogni del pubblico”, ha affermato al recente Web Marketing Festival Laura Moro, direttrice della Digital Library e regista del Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale (Pnd) del ministero della Cultura. “Dati e servizi si portano dietro altri due componenti fondamentali: il cloud, il che significa cambiare completamente il modo di progettare e realizzare i sistemi digitali, e le competenze. Su questa filiera investiremo i 500 milioni dell’investimento ‘Strategie e piattaforme digitali per il patrimonio culturale’”.

Il Pnd, che è stato messo in consultazione e sarà rilasciato entro alla fine dell’anno, impatterà in un primo momento sui luoghi della cultura pubblici. Ma potrà avere effetti a cascata sugli altri istituti, gli enti territoriali, le imprese culturali e creative. L’obiettivo è “creare cambiamento”, come ha detto Moro, digitalizzando e migliorando il ciclo di vita delle risorse digitali, ampliando le forme di accesso al patrimonio culturale, abilitando ecosistemi interdipendenti, promuovendo tecnologie abilitanti. Le strategie affronteranno alcuni punti di debolezza del sistema italiano: la scarsa sostenibilità nel tempo dovuta alla rapida obsolescenza delle modalità di conservazione dei dati, la limitata condivisione dei risultati, in termini sia di competenze che di prodotti realizzati; la ridotta possibilità di seguire gli utenti nelle diverse forme di fruizione del patrimonio culturale. “Il lavoro che ci aspetta nei prossimi anni è da un lato costruire una grande infrastruttura di dati, e poi stimolare le istituzioni a concepire nuovi modi di rapportarsi con il pubblico e le aziende mettere in campo la tecnologia e i servizi”.

Inevitabilmente questa trasformazione impatterà sull’evoluzione della figura dell’archivista e delle altre componenti del settore, una nuova fase in cui dovranno governare la contemporaneità in piena trasformazione. “In Italia non abbiamo bisogno di nuove figure professionali”, è l’analisi di Paoloni, “il nostro Paese è in posizione avanzata a livello internazionale sia per le best practice sia dal punto di vista della ricerca delle soluzioni. Si tratta piuttosto di puntare sulla formazione degli operatori e adattare i sistemi formativi. Occorre investire sul coordinamento, serve un sistema condiviso e non imposto dall’alto tra le istituzioni che gestiscono i dati. Poi creare delle ‘camere di comunicazione’ per lo scambio di esperienze, per andare tutti nella stessa direzione. Infine è fondamentale investire sui sistemi, software ed hardware”.

mercoledì 23 novembre 2022