Greenwashing: si stringe la morsa in Europa, e anche in Italia
A partire dalla delibera dell'Advertising standards authority contro la Shell, un approfondimento sull'influenza dei meccanismi di pubblicità ingannevole nel mercato. Ten. Col. Massimiliano Corsano: fenomeni da sanzionare "al pari del falso in bilancio".
di Luca Poma
A un anno dalla prima sentenza per pubblicità ingannevole e greenwashing, che ha coinvolto un’azienda italiana che attribuì impropriamente ai propri prodotti la caratteristica “verde”, la ricerca sui “false Esg” presentata al Parlamento europeo di Bruxelles evidenzia come il grado di fiducia dei cittadini nelle dichiarazioni di sostenibilità da parte delle aziende risulti tra il basso (44,44%) e il bassissimo (19,55%), e che una parte significativa del pubblico ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità più che altro per motivi pubblicitari e di marketing (45,47%) e non per genuino interesse. L’assenza di norme stringenti sull’attribuzione dei rating Esg e la conseguente facilità con cui vengono rilasciati, rischia di svilire l’impegno delle aziende davvero virtuose, e soprattutto evidenzia una crescente sfiducia da parte dei cittadini Ue su queste importanti e attualissime tematiche. Ora, una nuova tempesta si staglia all’orizzonte dei promotori della sostenibilità non genuina.
La potente e rispettata autorità inglese sulla pubblicità (Advertising standards authority, Asa) ha vietato nel Paese, con una delibera, la diffusione di una campagna pubblicitaria – digitale, TV, radio e cartellonistica – della multinazionale del petrolio Shell, perché giudicata ingannevole. Fin qui, poco di nuovo: le istituzioni nel mondo anglosassone sono da sempre molto sensibili al tema della genuinità delle comunicazioni dirette al pubblico. La novità risiede però nella motivazione.
Non è la campagna di per sé a essere ingannevole (Shell energy Uk, che si occupa di energia elettrica a basse emissioni di carbonio, investe in rinnovabili, è impegnata nella costruzione di una delle più grandi reti pubbliche di punti di ricarica per veicoli elettrici, e si sta impegnando attivamente nella transizione “verde” del Regno Unito), bensì il fatto che contemporaneamente a queste pur lodevoli iniziative, la capogruppo Shell nei primi tre mesi del 2023 ha prodotto un milione e mezzo di barili di petrolio al giorno mediante sistemi di estrazione tradizionale a medio o alto impatto ambientale.
La pubblicità quindi “non s’ha da fare” perché sponsorizza esclusivamente alcuni degli investimenti dell’azienda – quelli in energie rinnovabili – tacendo per contro su tutto il resto delle attività inquinanti che quotidianamente promuove, e che di fatto – incidentalmente – sono la principale fonte di incassi della multinazionale stessa. Semplificando, è una delle prime delibere finalizzate a colpire gli specchietti per le allodole, ovvero le “foglie di fico verdi” utilizzate dalle grandi aziende per distorcere la percezione che il mercato ha delle loro attività, spesso inquinanti.
Anche in Italia si stanno promuovendo approfondimenti sempre più stringenti: un’assoluta eccellenza investigativa dell’Arma dei Carabinieri, l’alto ufficiale Massimiliano Corsano, segue con sempre maggiore attenzione, in stretta collaborazione con l’autorità giudiziaria, diversi filoni di indagine sulle dichiarazioni etiche aziendali non genuine, che – come ha dichiarato anche recentemente in occasione di un suo intervento al Parlamento europeo: “Dovrebbero essere sanzionate penalmente al pari del falso in bilancio, in quanto sono manipolative del mercato, fuorvianti, e anche offensive dell’impegno di quelle aziende che fanno della sostenibilità un driver di sviluppo autentico”.
Ora, la Commissione europea ha proposto una Direttiva per stabilire criteri comuni per contrastare il fenomeno delle asserzioni ambientali ingannevoli, iniziativa assai apprezzabile: chissà se arriveranno prima le direttive Ue o le sentenze giudiziarie, con le relative sanzioni e con l’inevitabile e conseguente danno reputazionale per le aziende coinvolte.
di Luca Poma, professore in Reputation management all'Università Lumsa di Roma e all'Università della Repubblica di San Marino, socio professionista Ferpi