Esg e Pmi: quale ruolo per la comunicazione?
Le tematiche legate alla sostenibilità riguardano materie complesse e multidisciplinari. Necessario avere conoscenza dei contenuti, ma anche saperli trasmettere.
di Sergio Vazzoler
Una recente ricerca Capterra fa tornare sotto i riflettori un tema che purtroppo non passa mai di moda: quanto sono pronte le Pmi italiane ad affrontare i cambiamenti che la sostenibilità impone e accoglierli all’interno della propria realtà? Perché la transizione sia possibile – lo sappiamo – serviranno competenze, aggiornamento, condivisione di esperienze e punti di vista. Ebbene, sul fronte consapevolezza e competenze – binomio inseparabile – l’indagine Capterra accende una spia di attenzione: solo il 27% dei Ceo e dirigenti intervistati conosce e comprende il concetto di Esg (environmental, social e governance), mentre il 35%, benché conosca il concetto, non ha idea del significato dell’acronimo e il 23% “ha sentito” il termine ma non ne conosce il significato. Il 15% non ne ha mai sentito parlare, facendo sospettare una dieta mediatica dell’eremita o una certa refrattarietà al tema della sostenibilità stessa.
Più si rimane fermi e più si allontanano gli obiettivi della transizione
Non è questione da poco. Alla mancanza di conoscenza del termine corrisponde infatti un 41% di aziende che vorrebbero attivare iniziative Esg ma che sono “bloccate” dalla mancanza d'informazioni su come muoversi. È qui il vero nocciolo: la mancanza di conoscenza inibisce l’azione, con tanti cari saluti agli obiettivi della transizione ecologica. Naturalmente sono anche altri i problemi: la mancanza di risorse finanziarie, di personale specializzato (che però suona tanto come mancanza di competenze, di nuovo) o anche l’idea che l’evoluzione Esg non sia una priorità per la propria realtà.
È innegabile: le tematiche legate alla sostenibilità riguardano spesso materie complesse, con mille implicazioni scientifiche, legali, comunicative, organizzative, relazionali. La sua dimensione è multidisciplinare. Non solo è necessario avere piena conoscenza dei contenuti – in continua evoluzione – ma la natura conflittuale di alcune tematiche richiede un certo savoir-faire nel saperle affrontare e trasmettere.
È comprensibile, quindi, che molte imprese consapevoli dei propri gap preferiscano rimanere ferme e attendere, soprattutto a fronte di un dibattito pubblico scrupoloso e agguerrito in cui i crescenti tentativi (o semplici inciampi inconsapevoli) di greenwashing vengono smascherati sulla pubblica piazza.
Cosa può fare chi si occupa di comunicazione?
La comunicazione non è lavoro epidermico di immagine ma “messa in comune” di significati, valori e obiettivi. Partendo da questo presupposto, è semplice capire come questa figura professionale, in un momento di profonda trasformazione come quello che stiamo vivendo, possa fare molto per accorciare le distanze, facilitare gli scambi e costruire una narrazione del cambiamento trasparente rispetto a difficoltà e limiti e allo stesso tempo attenta alle opportunità e ai vantaggi di cui il nuovo paradigma si fa portatore. I suoi strumenti del mestiere – saper capire e analizzare i pubblici, valutare spazi, tempi e modi della comunicazione, governare i linguaggi e le relazioni – possono davvero dare il via a un circolo virtuoso fondato sulla diffusione di competenze e conoscenze, sull’ascolto delle esigenze, sul dialogo, sulla partecipazione. Così da trovare la giusta misura tra l’essere cauti – e mettersi al riparo da facili entusiasmi, rischi reputazionali e incoerenze – e l’essere coraggiosi. Che anche il coraggio, sommato tutto, serve.