Le misure del benessere e l’uso dei dati: evoluzione e sfide
Una riflessione sugli sviluppi della statistica ufficiale, sulle tecniche per andare “oltre il Pil” e sul loro impatto politico: l’importanza dell’Agenda 2030, le prospettive per clima e demografia, i big data.
di Donato Speroni
Tratto dal blog “Numerus”, sul sito del Corriere della Sera.
“Numerus” è un impegno che assunsi nel 2011 con l’allora direttore del Corriere della sera Ferruccio De Bortoli. Avevo appena pubblicato il libro “I numeri della felicità” (Cooper 2010) che dava conto dei lavori in corso per misurare il benessere collettivo “beyond Gdp” cioè al di là della misurazione del Prodotto interno lordo. Il blog nacque con l’idea di seguire gli sviluppi di questa ricerca, allargando l’analisi anche alla descrizione del rapporto tra statistica e politica.
A maggio saranno dodici anni dalla pubblicazione del primo post e mi sembra interessante tracciare un consuntivo del cammino fatto in questi anni, sul “beyond Gdp” e più in generale dalla statistica.
Senza dubbio, i lavori“oltre il Pil” sono andati molto avanti. L’Ocse è stata il centro di propulsione su questo tema fin dal convegno di Palermo del 2004 su “Statistics knowledge and politics” (un evento che si spera di rinnovare dopo vent’anni, nel 2024). Già dal 2011 l’organizzazione ha lanciato il Better life index che consente di valutare le prestazioni di una trentina di Paesi su 11 parametri e di crearsi la propria classifica in base ai pesi dati a ciascuno di questi parametri, per esempio attribuendo più importanza all’istruzione e meno alla salute o viceversa. Più recentemente, il lavoro in questo campo è stato sistematizzato attraverso il Wise, Centre on well-being, inclusioni, sustainability ad equal opportunity, diretto dall’italiana Romina Boarini.
In Italia dal 2012 si pubblica il rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes), una misurazione annuale su circa 130 indicatori articolati in dodici domini. Si potrebbe continuare con altri esempi, a conferma del fatto che ormai in tutto il mondo si dispone di una ampia batteria di dati che consentono di misurare il benessere collettivo. Semmai è ancora carente la capacità dei media e dei politici di utilizzare questi dati. Nella comunicazione, il dato del Pil o l’indice di disoccupazione sono più efficaci di un insieme articolata di indicatori, mentre è sfumata l’idea di poter sostituire il Pil con un unico dato di sintesi: troppo articolati sono i fattori che si devono prendere in considerazione. Come ha detto il premio Nobel Joseph Stiglitz, che nel 2007 – 2009 guidò la commissione voluta dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy, anche in auto non pretendiamo di avere un unico indicatore che ci dica a che velocità stiamo andando e quanta benzina resta nel serbatoio; è necessario leggere un cruscotto di dati diversi. Ma i cruscotti sono necessariamente più complicati del Pil. Ed è anche sfumata l’idea di poter confrontare un “indice di felicità” onnicomprensivo. Anche se la Gallup continua a rilevare le risposte in moltissimi Paesi alla domanda “Quanto sei soddisfatto della tua vita in una scala da zero a dieci”, troppo sono le differenze culturali per poter fare validi confronti tra aree geografiche diverse. Anche il famoso “Gross national happiness”, l’indicatore di felicità rilevato nel piccolo Bhutan, si basa su misurazioni rigorose ma sostanzialmente valide in una cultura di tipo buddista, per esempio valutando quanto tempo si dedica giornalmente alla meditazione.
Un grandissimo impulso al progresso della statistica è arrivato dal lancio dell’Agenda 2030, sottoscritta nel settembre 2015 da tutti i Paesi dell’Onu. I 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs nell’acronimo inglese da Sustainable development goals) dell’Agenda hanno sostituito gli Obiettivi del Millennio (MDGs, nell’acronimo inglese di Millennium development goals), validi dal 2001 al 2015. A differenza degli MDGs, che hanno avuto uno scarso impatto mediatico, gli SDGs hanno mobilitato un grande impegno nella società civile, ma anche nelle imprese e nella politica. In Italia è nata l’ASviS per unire i soggetti impegnati a realizzare uno o più obiettivi dell’Agenda. Le imprese hanno sviluppato la filosofia delle stakeholder companies, attente a tutti i portatori d’interesse e non più solo agli azionisti, come avveniva nelle shareholder companies e la percezione dei limiti planetari, unita alla crescita di sensibilità delle popolazioni, ha dato impulso alla green economy e alla finanza verde.
La Commissione europea di Ursula von der Leyen ha improntato al raggiungimento degli Obiettivi l’attività dei suoi commissari. Tutti i Paesi del mondo presentano periodicamente i risultati per la realizzazione degli Obiettivi nelle Voluntary national reviews, discusse ogni anno a luglio in occasione dell’High level political forum. Gli Obiettivi dell’Agenda si sostanziano in 169 target, quasi tutti misurabili statisticamente in ogni Paese, con un grande impulso alla crescita della statistica. Anche in Italia l’Istat ha prodotto una batteria che nella più recente edizione contiene 371 indicatori, anche questi preziosi per valutare la qualità della vita collettiva. Da questi indicatori, l’Area ricerca dell’ASviS ricava indici compositi sulle prestazioni del Paese in confronto agli altri dell’Unione europea e di ciascuna regione per ogni Obiettivo.
In questi anni, i temi legati alla sostenibilità sono diventati di drammatica attualità, a cominciare da demografia e clima. Nel 2012, con Gianluca Comin, scrissi il libro “2030 la tempesta perfetta – Come sopravvivere alla grande crisi” (Rizzoli). Riportava gli allarmi che già circolavano tra gli addetti ai lavori (fin dalla pubblicazione de “I limiti dello sviluppo” nel 1972) ma erano poco avvertiti dall’opinione pubblica. Oggi la situazione è totalmente diversa. La crisi climatica è materia di cronache quotidiane ed è anche cambiato l’atteggiamento verso il futuro, perché la pandemia da Covid ci ha avvertito che siamo soggetti a “cigni neri” imprevedibili.
Quello che ancora manca, dal punto di vista statistico, è proprio una adeguata misurazione della sostenibilità. Sappiamo che per valutare complessivamente il patrimonio che trasmettiamo alle future generazioni abbiamo bisogno di misurare, oltre al capitale economico, anche quello ambientale, sociale, umano. Ma le misurazioni sono abbastanza opinabili e non ci danno un quadro complessivo del deterioramento del Pianeta e della condizione dell’umanità che lo abita. Per averne una idea complessiva usiamo l’Earth overshoot day, la misura che ci dice in che giorno dell’anno abbiamo finito di consumare tutte le risorse prodotte dalla Terra quell’anno. La data attualmente si colloca al 28 luglio e ci dice che consumiamo più di un pianeta e mezzo ogni anno.
Andrà peggio, se non cambia il modello di sviluppo, anche a seguito della crescita della popolazione. Possiamo vedere i problemi demografici sotto un triplice aspetto. Il primo riguarda la popolazione globale. Quest’anno l’umanità ha passato la boa degli otto miliardi, ma il tasso di fecondità è quasi ovunque in calo e si prevede che la popolazione si stabilizzerà tra i dieci e gli undici miliardi nella seconda metà del secolo. Una cifra gestibile dal punto di vista alimentare (i problemi sono più di logistica che di quantità) ma che pone interrogativi drammatici sull’uso complessivo delle materie prime. O l’umanità saprà passare rapidamente a un modello di economia circolare massimizzando il riuso e minimizzando gli scarti, oppure si assisterà a una drammatica lotta per accaparrarsi risorse insufficienti.
Il secondo problema riguarda la mobilità della popolazione mondiale, soprattutto a causa della crisi climatica. Si prevede che entro il 2050 almeno duecento milioni di persone (ma potrebbero essere molte di più) lasceranno i luoghi d’origine diventati aridi e inospitali, ma manca una visione globale su come gestire questi ingenti flussi.
Infine, l’invecchiamento nei Paesi più ricchi, soprattutto in Italia. Quanti immigrati siamo disposti ad accogliere nei prossimi decenni, di quanti nuovi apporti abbiamo bisogno per evitare non solo gli effetti di un eccessivo invecchiamento, ma anche una riduzione della popolazione? Anche a questa domanda è molto difficile avere una risposta dalla politica. Da anni ho scritto su “Numerus” che per mantenere stabile la popolazione italiana dovremmo accogliere bene almeno 200mila immigrati all’anno, e questa cifra non è mai stata smentita. Un dibattito su Futuranetwork, moderato da De Bortoli, ha sottolineato l’esigenza di affrontare questo problema, ma non si può dire che la recente campagna elettorale e gli atti susseguenti del nuovo governo abbiano preso di petto il problema delle prospettive di medio e lungo termine dell’immigrazione.
L’ultimo aspetto che voglio segnalare, come cambiamento in questi dodici anni, è la fonte stessa dei dati. Quando “Numerus” è cominciato, i dati della statistica erano descritti in tre famiglie: censimenti, rilevazioni campionarie, dati amministrativi. Molto è cambiato in questo periodo, per esempio con l’attuazione dei censimenti continui che non richiedono più una rilevazione ogni dieci anni sull’intera popolazione, ma si aggiornano continuamente incrociando i dati ammnistrativi con rilevazioni a campione. Ma la vera grande novità sono i big data: siamo tutti diventati tracciabili, attraverso i segni che lasciamo con le nostre attività sul web, gli spostamenti rilevati dai nostri cellulari, gli acquisti che facciamo on line. Si pongono nuovi problemi, sia di privacy che di proprietà dei dati stessi, che sono detenuti per esempio dai grandi social media come Facebook, senza adeguate garanzie per il loro uso.
Molte cose insomma sono cambiate in questi dodici anni, e il compito degli statistici non è certo diventato più facile. Ma possiamo concludere con una nota positiva. Mi sembra che in questo periodo la statistica ufficiale in Italia abbia mantenuto le sue prerogative di indipendenza e di qualità. Ci sono stati momenti difficili e anche adesso ci sono interrogativi sul futuro dell’Istat e sulle interazioni con soggetti esterni che svolgono rilevazioni, ma nel complesso il bilancio dell’Istituto in questi anni è stato positivo. Nei difficili anni che ci attendono è fondamentale che la statistica ufficiale mantenga le sue qualità di autorevolezza e autonomia dalla politica.
di Donato Speroni, responsabile di FUTURAnetwork