Nel mondo ci sono 425 “bombe di carbonio” pronte a “sconvolgere il clima”
Un team di ricercatori ha identificato i progetti di estrazione di combustibili fossili più devastanti a livello globale. A dominare è la Cina, seguita da Russia e Stati uniti.
di Andrea De Tommasi
Si chiamano “Carbon bombs”, bombe di carbonio, e farebbero aumentare a dismisura il livello di C02 nell’atmosfera. Ce ne sono 425 in tutto il mondo: 195 progetti di petrolio e gas e 230 miniere di carbone, operative o in costruzione, in 48 Paesi. Queste attività, se portate a termine fino in fondo, rilasceranno più di una gigatonnellata di emissioni di anidride carbonica, impedendo il raggiungimento del limite di 1.5 °C di incremento del riscaldamento globale previsto dagli accordi di Parigi. L’elenco completo si trova in un recente studio pubblicato sull’Energy policy journal, ma il tema è della massima importanza, tanto da richiamare l’attenzione del Courrier international, che vi ha dedicato un approfondimento nel suo L’Atlas des énergies, e di Radio 3 mondo nella puntata del 9 ottobre.
Ci sono solo dieci Paesi con più di dieci bombe di carbonio: Cina (141), Russia (41), Stati uniti (28), Iran (24), Arabia Saudita (23,5 compreso un progetto gestito al 50% con Kuwait), Australia (23), India (18), Qatar (13), Canada (12) e Iraq (11). Insieme, rappresentano tre quarti delle emissioni potenziali di tutte le bombe di carbonio. Un certo numero di queste non ha ancora iniziato l'estrazione. In alcuni casi, l'infrastruttura richiesta non è stata ancora costruita.
Mentre i combustibili fossili sono responsabili del 75% delle emissioni globali di gas serra, disinnescare questi progetti in grado di “sconvolgere il clima" dovrebbe essere "una priorità nella politica di mitigazione del cambiamento climatico", affermano gli autori dello studio. Sì, ma com'è possibile porre fine alle carbon bombs? In primo luogo, rileva il team di ricerca, è necessaria una seria discussione sul lato dell'offerta tra i grandi Stati produttori di combustibili fossili. Soprattutto Cina, Russia e Paesi del Medio Oriente, insieme agli Stati Uniti, hanno urgente bisogno di iniziare a esplorare opzioni non estrattive. Secondo, gestire in coordinamento la transizione dai combustibili fossili “potrebbe essere una forza stabilizzante in un mondo in transizione energetica” anche per ridurre il rischio di perdite dovute all’azione unilaterale. In terzo luogo, è utile sviluppare approcci utili su misura per ogni contesto. Alcuni fattori influenzano le opinioni dei decisori politici sui nuovi progetti fossili: i costi, l'ubicazione, l'intensità delle emissioni (in contrapposizione alle dimensioni complessive), le alternative disponibili, le entrate fiscali, i posti di lavoro e se si tratta di un progetto esistente o nuovo. Dunque alcune attività possono essere disinnescate attraverso negoziati a livello internazionale, altre possono essere affrontate principalmente a livello politico nazionale, altre ancora possono essere oggetto di mobilitazioni con azioni legali e blocchi. Quello che è certo, concludono gli autori, è che “sono necessarie nuove strategie per progettare misure efficaci che si traducano nella loro non estrazione, un'area finora trascurata dalla politica di mitigazione tradizionale”.