Entro pochi anni a Ravenna il sito di stoccaggio di C02 più grande d’Europa?
Il progetto di decarbonizzazione firmato da sei grandi realtà industriali mette la Ccs al centro della transizione energetica.
di Andrea De Tommasi
I siti per la cattura e lo stoccaggio del carbonio su scala industriale esistono da mezzo secolo: nel 1972 fu avviato un grande progetto per utilizzare l’anidride carbonica di scarto dagli impianti petroliferi in Val Verde, nel Texas. Tuttavia, è solo di recente che l’urgente necessità di affrontare il cambiamento climatico garantendo una transizione dall’uso dei combustibili fossili ha acceso davvero i riflettori sulle tecnologie Ccs (Carbon, capture and storage) e Ccus (Carbon, capture and utilization). In tutto il mondo ad oggi sono disponibili una trentina di impianti per la cattura e lo stoccaggio del carbonio. L'attuale capacità Ccus globale è di circa 63 milioni di tonnellate all’anno (Mtpa) e secondo alcune stime aumenterà a 1.700 Mtpa entro il 2050: una crescita rilevante ma comunque solo una frazione di ciò che sarebbe necessario per una transizione energetica ordinata. La Norvegia e il Regno Unito stanno aprendo la strada con progetti rilevanti, mentre le nazioni più piccole cercano finanziamenti internazionali per sostenere gli alti costi di queste tecnologie.
Dal giugno scorso è partito in Italia il progetto del Polo industriale di Ravenna e Ferrara, dove Cabot, Herambiente, Marcegaglia, Polynt, Versalis (Eni) e Yara, con Eni e Snam come partner tecnici, stanno lavorando al trasporto, uso e stoccaggio di CO2. Il processo è in pieno svolgimento: l’obiettivo è la decarbonizzazione dei settori industriali energivori, quelli dove è più difficile abbattere le emissioni, per raggiungere gli obiettivi ambientali fissati dall’Unione europea. Si tratta, sottolineano le aziende coinvolte, della prima esperienza italiana applicata a un distretto produttivo di rilievo internazionale.
Il progetto è quello di rendere Ravenna un hub pionieristico per l'Italia e il Mediterraneo. Guidato da Eni, l'hub è in fase di sviluppo iniziale. Il piano prevede di avviare la fase 1 nel 2023, testando le tecnologie in una catena completa di cattura, trasporto e stoccaggio capace di movimentare fino a 100mila tonnellate di anidride carbonica all’anno. La fase 2, prevista per il 2027, punta a immagazzinare 4 milioni di tonnellate annue, di cui circa la metà da tre centrali e un impianto a idrogeno di proprietà di Eni, e il resto da terze parti. Lo stoccaggio avverrà nei pozzi esausti dell'Adriatico al largo delle coste di Ravenna. La capacità di stoccaggio totale dei campi offshore dell’Adriatico è stimata fino a 500 milioni di tonnellate, il che rende il progetto flessibile per ulteriori espansioni industriali con una capacità di stoccaggio annua che potrà essere incrementata fino a 10 milioni di tonnellate all’anno.
È la soluzione giusta? Il dibattito in corso presenta pro e contro. Gli ambientalisti sottolineano che ancora oggi nel mondo non esistono esperienze definitive e sicure di questa tecnologia: perché sprecare soldi in ricerca quando l’obiettivo deve essere puntare tutto sulle rinnovabili? Lo scorso dicembre un gruppo di scienziati si è rivolto al presidente della Repubblica e al presidente del Consiglio elencando i cinque motivi per cui avallare il progetto di Eni sarebbe un errore e non aiuterebbe in alcun modo a contrastare l’inquinamento.
D’altra parte, ci sono quelli che sottolineano che i prototipi in Norvegia stanno dando risultati tali da investire con convinzione su questa tecnologia. Nel 2021 uno studio dell’Unece, la Commissione economica europea delle Nazioni unite, ha evidenziato che lo sviluppo su larga scala della tecnologia Ccus consentirebbe ai Paesi di decarbonizzare il settore energetico e ai settori più inquinanti di colmare il divario fino a quando le tecnologie energetiche a basse, zero o negative emissioni di carbonio di “prossima generazione” non saranno disponibili.
fonte dell'immagine di copertina: ansa.it