Il cambiamento climatico minaccia il caffè: nel 2050 sarà un bene di lusso?
Le piantagioni keniote sono in pericolo a causa dell’aumento della temperatura, riportano studi recenti. Gravi conseguenze economiche per la popolazione locale. Senza tecniche innovative, “berremo semplicemente caffè sintetico”.
di Flavio Natale
“Il riscaldamento globale potrebbe ridurre della metà le coltivazioni di caffè Arabica entro il 2050”. A lanciare l’allarme è un nuovo studio pubblicato su Plos One che presenta la prima valutazione globale dell’idoneità del caffè Arabica, dell’anacardio e dell’avocado combinando fattori climatici e impatto sul suolo. Il caffè si è rivelato più vulnerabile ai cambiamenti climatici con impatti negativi significativi in tutte le regioni, principalmente a causa dell'aumento delle temperature. La notizia è stata rilanciata dall’Economist che, in un approfondimento dedicato al tema, fa luce sulle problematiche che stanno affliggendo la coltivazione di Arabica sul monte Kenya, una delle aree a più alta coltivazione di chicchi del pianeta.
Secondo il quotidiano, le piante di Arabica rappresenterebbero circa il 60% della produzione mondiale di caffè e oltre il 98% di quella keniota. Le piantagioni prosperano ad altitudini comprese tra i mille e i duemila metri nelle regioni equatoriali, a temperature di 18-21°C. “Negli ultimi 60 anni le temperature medie in alcune regioni del caffè in Kenya sono aumentate di 1,1°C, raggiungendo picchi diurni di 25°C”, ha dichiarato Patricia Nying'uro, climatologa presso il Dipartimento meteorologico del Kenya.
Rosabella Langat, coltivatrice intervistata dall’Economist, ha aggiunto che il suo raccolto – una tenuta di sei ettari – è stato gravemente danneggiato da un fungo mortale, che prolifera ad alte temperature e umidità elevata. “Questi fenomeni intaccano la nostra redditività”, ha affermato la donna al quotidiano. “E non riceviamo nemmeno sussidi da investire per nuovi raccolti”.
Sebbene il caffè sia solo la quarta esportazione più grande del Kenya, ha un ruolo particolarmente significativo per l’economia delle campagne. Secondo i dati del governo keniota, l'industria del caffè fornisce reddito, direttamente o indirettamente, a circa sei milioni di persone – che, su un totale di circa 54 milioni di abitanti complessivi nello Stato, equivale a quasi un nono della popolazione totale. Le coltivazioni sono soprattutto in mano a piccoli agricoltori: il 65% del caffè prodotto in Kenya viene infatti coltivato su piccoli appezzamenti, larghi in media 0,16 ettari.
Alcuni agricoltori stanno perciò cercando di adattarsi al riscaldamento globale spostandosi ad altitudini più elevate, confliggendo però con le aree dedicate alla coltivazione del tè – altro settore molto prolifico, che sostiene il 10% della popolazione keniota, con esportazioni pari a 1,2 miliardi annui.
Il Coffee Research Institute, finanziato dal governo del Kenya, sta perciò cercando di trovare sistemi alternativi per aiutare gli agricoltori ad adattarsi, incoraggiandoli a piantare alberi per ombreggiare le piantagioni di caffè o coltivare piante di Robusta (altra tipologia di caffè, diversa dalla Arabica), normalmente più resistenti. A questo proposito, il governo sta anche finanziando la sperimentazione di un ibrido, l’Arabusta, che unirebbe la resistenza della Robusta con il sapore dell’Arabica.
Un'altra opzione potrebbe essere sondare nuove varietà di caffè. I ricercatori del Royal Botanic Gardens di Kew, a Londra, stanno studiando un tipo selvatico di caffè, il Coffea stenophylla, registrato per la prima volta da un botanico scozzese nel 1834. “È delizioso e può anche sopportare il caldo”, si legge sull’Economist. Questa tipologia di caffè, però, assicura rese inferiori rispetto alle varietà esistenti in commercio, e potrebbero volerci anni prima che si diffonda all’interno delle coltivazioni keniote.
I rischi per il settore sono perciò molto alti. Numerosi piccoli agricoltori rischiano di essere tagliati fuori dal mercato, non potendo permettersi gli investimenti necessari per proteggere i raccolti – causando, di conseguenza, una probabile concentrazione della produzione nelle mani delle grandi imprese in grado di adattarsi.
Anche Sasini, una delle più grandi aziende di caffè keniote, sta correndo ai ripari: ha infatti installato l'irrigazione a goccia e a pioggia nelle piantagioni di caffè, e sta progettando il trasferimento delle coltivazioni in nuove regioni, comprese quelle dei Paesi vicini. "È molto probabile che espanderemo la nostra attività in nuove aree, in cui possiamo ricominciare da zero", ha dichiarato Martin Ochien’g, amministratore delegato del gruppo Sasini.
“Senza una vera svolta, gli amanti del caffè potrebbero affrontare un futuro tetro”, avverte Vern Long, Ceo del World Coffee Research. “Se non utilizziamo l'innovazione per rispondere alle sfide climatiche, berremo semplicemente caffè sintetico”.