Dietro gli annunci della Cina: più crescita verde che lotta alle emissioni
Il Paese gioca un ruolo fondamentale nella lotta alla crisi climatica, ma le sue politiche ambientali sembrano prevalentemente orientate verso la preservazione della natura per raggiungere gli obiettivi stabiliti dal Partito.
di Maddalena Binda
La crescita economica che ha interessato la Cina a partire dagli anni ’90 e i conseguenti risvolti sociali, tra cui la diminuzione del tasso di povertà estrema, eliminata lo scorso anno secondo le dichiarazioni del Partito comunista cinese (Pcc) hanno causato problemi ambientali come inquinamento atmosferico, impoverimento del suolo, eccessivo sfruttamento delle risorse idriche e siccità. La costruzione di megalopoli, parte di un ampio processo di urbanizzazione senza limiti che ha portato il tasso di popolazione urbana dal 16% del 1960 al 61,43% del 2020, è avvenuto senza tener conto delle conseguenze ambientali e dei rischi legati ai cambiamenti climatici. Un esempio sono le recenti alluvioni che hanno interessato, a luglio 2021, la Cina centrale, in particolare la provincia dello Henan. Città come Zhengzhou, dotata di sistemi per mitigare gli effetti delle alluvioni e per anni destinataria di investimenti per diventare “città-spugna”, sono state travolte dalla pioggia intensa caduta in poche ore che ha provocato vittime e ingenti danni. La stampa nazionale ha raccontato gli eventi collegandole ad altri eventi estremi verificatisi nel mondo, come le ondate di calore negli Stati Uniti e in Canada o le alluvioni in Germania, dedicando ampio spazio agli interventi nei territori colpiti e poco alla correlazione con i cambiamenti climatici. Nonostante le conoscenze rese disponibili dalla comunità scientifica, raccolte e analizzate anche nel Blue book on climate change China 2021, diffuso dalla China meteorogical administration a inizio agosto, e la certezza che eventi estremi come questo saranno sempre più frequenti nel Paese, in Cina si parla raramente di sviluppo sostenibile come risposta necessaria alla crisi climatica.
Sviluppo sostenibile sinonimo di crescita verde. Nella narrazione ufficiale del Partito comunista, le problematiche ambientali vengono discusse in termini di conservazione delle foreste e dei laghi, di tutela della biodiversità, di riduzione dei rifiuti e degli sprechi e di politiche per ridurre l’inquinamento: l’obiettivo finale è preservare la natura stabilendo una crescita economica verde. Il Partito condivide l’idea, presente nel pensiero tradizionale cinese, secondo cui l’uomo domina la natura e ha il diritto di sfruttarne le risorse. Questa logica estrattiva è stata alla base delle politiche economiche di Mao e della sua guerra alla natura ed è tuttora riscontrabile in alcune politiche cinesi.
In questo quadro ideologico si inserisce il concetto di civiltà ecologica (生态文明 shēngtài wénmíng): introdotto da Hu Jintao nel 2007, è diventato chiave nel pensiero di Xi Jinping, segretario del Pcc dal 2012 e presidente della Repubblica popolare cinese dal 2013. La civiltà ecologica è definita come un modello economico improntato sul risparmio energetico e sulla protezione dell’ambiente. Nel 2017, nel discorso di apertura del 19° Congresso nazionale del Partito comunista cinese, assemblea quinquennale a cui partecipano delegazioni provenienti da tutto il territorio nazionale e uno degli incontri fondamentali per il Pcc, Xi Jinping ha dichiarato che “costruire una civiltà ecologica è vitale per mantenere lo sviluppo nazionale cinese” e per realizzare il sogno cinese di una rivitalizzazione nazionale. Le politiche attuate dal Partito per garantire lo sviluppo del Paese senza compromettere l’ambiente possono essere divise in due macrocategorie: la prima raccoglie tutte le politiche di riduzione delle emissioni e gli investimenti in fonti di energia rinnovabile, la seconda include tutti i provvedimenti intrapresi per conservare l’ambiente naturale.
Politiche di riduzione delle emissioni. Dal 2006, la Cina è il primo Paese per emissioni di CO2, seguito dagli Stati Uniti, e contribuisce circa al 27% delle emissioni globali.
Le emissioni pro capite sono però meno della metà di quelle della popolazione statunitense: nel 2019, ad esempio, sono state emesse 7,1 tonnellate pro capite dalla popolazione cinese e 15,1 tonnellate da quella statunitense. Questo dato è spesso utilizzato dal Partito comunista e dagli organi di stampa per respingere le accuse mosse dai Paesi occidentali sulle responsabilità della Cina nella crisi climatica e per sottolineare la diversità degli stili di vita tra la popolazione cinese e quella occidentale.
Nel 2020 il presidente Xi Jinping, in un video all’Assemblea generale delle Nazioni unite, ha dichiarato che la Cina raggiungerà la neutralità climatica entro il 2060. A luglio 2021 la Cina ha aperto un mercato per le emissioni di CO2: le centrali a carbone e gas produttrici di energia elettrica e riscaldamento possono vendere o acquistare indennità in base alla quantità di gas serra prodotti. I dubbi legati all’efficacia di questo provvedimento sono molteplici: l’iniziale apertura del mercato anche alle imprese produttrici di acciaio e cemento, alle industrie di altri settori e alle centrali elettriche avrebbe potuto garantire un impatto maggiore sulle emissioni di C02; la scelta di non imporre un limite massimo di emissioni, ma un limite per unità di energia prodotta; la difficoltà di effettuare controlli capillari sul territorio nazionale, aggravata dalla corruzione diffusa tra i governi locali.
Ad ostacolare la riduzione delle emissioni, vi è la forte dipendenza della Cina dal carbone che costituisce oggi la fonte primaria di energia del Paese. Il presidente Xi Jinping ha dichiarato che la Cina raggiungerà un picco di utilizzo del carbone nel 2026 per poi iniziare un progressivo distacco dal combustibile fossile. Allo stesso tempo la Cina è leader negli investimenti in energia solare ed eolica e punta ad ottenere almeno il 20% di energia da fonti pulite entro il 2025.
Un’idea romantica di natura da preservare. Parallelamente alle politiche di riduzione delle emissioni che la Cina sta portando avanti, anche nel tentativo di mostrarsi come una potenza responsabile, coesistono diverse iniziative di conservazione ambientale che, nei casi di successo, vengono ampiamente celebrate dal governo e dai media nazionali. Nel sito del ministero dell’Ecologia e dell’ambiente della Repubblica popolare cinese, ad esempio, è presente una sezione in cui vengono raccontate, anche attraverso video e frasi emozionali, storie di protezione ambientali raccolte per tutto il Paese.
Figura 1 I racconti delle persone in prima linea per la protezione ambientale. Raccolta di video "La mia storia di salvaguardia dell'ambiente"
Alla base di queste politiche vi è la teoria delle due montagne (两山论 liăng shān lùn), elaborata nel 2005 da Xi Jinping, allora segretario del Partito nella provincia dello Zhejiang. Durante una visita a Yucun dichiarò che “acque pulite e montagne verdi sono montagne d’oro, montagne d’argento”, riferendosi alla scelta del villaggio di chiudere le miniere di carbone e di investire sul turismo sostenibile.
Tra queste politiche di preservazione della natura vi sono le iniziative di piantumazione e riforestazione, come accade nella provincia autonoma del Tibet. In alcuni casi, la popolazione locale è impiegata come guardia forestale, così da contribuire anche allo sviluppo sociale del territorio interessato. Le politiche di piantumazione, tuttavia, presentano dei limiti evidenti: le foreste non forniscono i servizi ecologici caratteristici, come ad esempio trattenere il suolo, né costituiscono hub di biodiversità. Altre iniziative interessano le popolazioni nomadi della Mongolia interna: poiché le loro attività, in particolare i pascoli, sono considerate insostenibili per le pianure, i nomadi sono stati rilocati in aree periurbane e i territori da loro occupati sono stati trasformati in riserve naturali. Queste iniziative coinvolgono soprattutto i territori ai confini occidentali e le minoranze etniche che il governo cinese ha storicamente faticato a mantenere sotto il proprio controllo. Alcuni studiosi sostengono che il Partito comunista si stia servendo delle politiche di salvaguardia ambientale per aumentare la sorveglianza in quelle aree, eliminando le tradizioni della popolazione locale. Le persone interessate da questi programmi vengono definite come migranti ecologici. A questo gruppo appartengono anche le persone che sono state costrette a lasciare i propri territori a causa della siccità o della minaccia di eventi estremi, come nel caso degli abitanti della provincia del Ningxia, rilocati già a partire dagli anni ’80 a causa della scarsità idrica.
Cooperazione sul clima con caratteristiche cinesi. Sebbene in Cina il governo non affronti apertamente, a livello nazionale, discorsi sulla crisi climatica, preferendo parlare di crescita verde e generica protezione ambientale, a livello internazionale è intenzionato a mostrare il Paese come una potenza responsabile nella lotta ai cambiamenti climatici. Durante la Cop21, tenutasi a Parigi nel 2015, la Cina ha assunto, per la prima volta, impegni vincolanti nella riduzione delle emissioni. Oggi, forte della propria posizione di principale esportatrice di tecnologia utile alla transizione energetica, la Cina dimostra il proprio interesse ad instaurare uno scambio con l’Occidente, a condizione che alcune questioni interne, fra cui le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang e in Tibet, la sovranità su Hong Kong e i rapporti con Taiwan non siano messi in discussione. L’apertura alla cooperazione è ampiamente enfatizzata dalla stampa cinese, in particolare in seguito alla visita di John Kerry, inviato speciale presidenziale degli Stati uniti per il clima, in Cina ad aprile 2021 e alla dichiarazione congiunta rilasciata con Xie Zhenhua, delegato speciale per il clima della Rpc. La necessità di stabilire una collaborazione è stata sottolineata anche durante il più recente incontro svoltosi tra John Kerry e alcuni leader cinesi a inizio settembre: Wang Yi, ministro degli Esteri, ha affermato che gli Stati Uniti dovrebbero smettere di vedere la Cina come una minaccia e un nemico e che la cooperazione porterà benefici sia ad entrambi i Paesi sia al resto del mondo.
La Cop26 a Glasgow mostrerà se la convergenza sulla crisi climatica, anche alla luce delle ultime conoscenze diffuse dalla comunità scientifica attraverso il rapporto dell’Ipcc, raccontate ampiamente e con toni preoccupati anche dalla stampa cinese, possa essere sufficiente per superare le tensioni tra Cina e Stati Uniti, sia in ambito commerciale sia in ambito di diritti umani.
di Maddalena Binda