Che cosa è cambiato davvero cinque anni dopo l’accordo di Parigi
Se tutti i governi raggiungessero gli obiettivi già dichiarati, il riscaldamento potrebbe limitarsi a 2,1 °C entro fine secolo, vicino al traguardo indicato dall’Onu. Ma alla prossima Cop26 di Glasgow occorre sciogliere tre nodi.
Di Andrea De Tommasi
Il difficile percorso verso gli obiettivi climatici stabiliti nell'accordo di Parigi sarebbe a un punto di svolta. È quanto sostiene un’analisi di Climate action tracker (Cat), un’organizzazione scientifica nata dalla collaborazione di Climate Analytics e NewClimate Institute, pubblicata a dicembre col titolo “Paris agreement turning point”, secondo cui l’incremento della temperatura media globale potrebbe essere di circa 2,1 gradi Celsius al 2100. Un valore che sfiorerebbe l’obiettivo minimo (2 °C) indicato dall’accordo di Parigi, di cui il 12 dicembre ricorre il quinto anniversario. “Si tratta di uno sviluppo davvero importante”, ha detto Bill Hare, un esperto di Climate Analytics che ha collaborato al report, “più del 50% delle emissioni globali odierne sono prodotte da Paesi che si sono impegnati a raggiungere il target di emissioni zero entro il 2050”.
Lo studio, riportato dalla Bbc, presenta dati decisamente più incoraggianti rispetto a quelli elaborati nel settembre scorso, in cui Climate action tracker prevedeva un riscaldamento globale di circa il 2,7 °C entro il 2100, con effetti disastrosi per il Pianeta. Ma le nuove promesse climatiche della Cina e di altre nazioni potrebbero modificare in modo sostanziale la traiettoria del riscaldamento globale. A settembre Pechino ha annunciato che raggiungerà la neutralità climatica entro il 2060 e il picco di emissioni nel 2030, un fattore che da solo potrebbe ridurre il riscaldamento da 0,2 a 0,3 °C entro la fine del secolo. Xi Jinping, nel presentare i piani del Paese in un discorso alle Nazioni unite, non ha spiegato in dettaglio come la Cina avrebbe raggiunto il suo obiettivo, ma la sua promessa è stata giudicata comunque sorprendente da molti osservatori (leggi il commento del New York Times).
Il presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden, ha promesso di portare gli Stati Uniti a zero emissioni nette entro il 2050 (in questa ipotesi, si ridurrebbe il riscaldamento di altri 0,1 °C) e ha avviato gli incontri con la vice Kamala Harris e il suo staff per far rientrare gli Usa nell’accordo di Parigi. Nel giugno 2017, era stato Donald Trump ad annunciare la sua intenzione di ritirare gli Stati Uniti dall'accordo, ritiro che è diventato ufficiale lo scorso 4 novembre. Il 23 novembre Biden ha anche nominato John Kerry come suo inviato speciale per il clima. Nel primo intervento da inviato speciale, Kerry ha sollecitato il mondo ad aumentare le ambizioni della lotta contro il cambiamento climatico, dicendo che “l'accordo di Parigi non è abbastanza”. Anche il Sudafrica, il Giappone, la Corea del Sud e il Canada hanno recentemente annunciato obiettivi di zero emissioni nette. In totale, rileva Climate action tracker, 127 Paesi responsabili del 63% delle emissioni stanno prendendo in considerazione o hanno adottato obiettivi netti zero.
Gli scenari climatici
In realtà, le previsioni elaborate in questi mesi dai climatologi sono meno ottimistiche. In tre dei quattro scenari di emissioni (Representative concentration pathways-Rcp) presi in considerazione nei recenti rapporti dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), i +2°C di riscaldamento verrebbero superati negli anni 2040. Secondo lo scenario Rcp4.5, entro la fine del secolo le temperature globali aumenteranno da 1,7 a 3,2°C sopra i livelli preindustriali e per lo scenario Rcp8.5 da +3,2 a +5,4°C. L’unico scenario con una possibilità di rimanere entro i limiti stabiliti dall’accordo di Parigi è Rcp2.6, che prevede un riscaldamento da +0,9 a +2,3° C.
Secondo Met Office, il servizio meteorologico nazionale del Regno Unito, la temperatura media globale della Terra potrebbe raggiungere un calore record durante il quinquennio 2020-2024: se ciò fosse confermato, si arriverebbe a +1,5 °C già nel 2024. Queste analisi sono confermate da numerosi studi, tra cui il New energy outlook 2020 della società di ricerca BloombergNef che ha osservato come, nonostante il progresso della transizione energetica e la diminuzione della domanda di energia causata dal Covid-19, il mondo si stia dirigendo verso un aumento della temperatura di 3,3 gradi Celsius entro il 2100. Per mantenere le temperature ben al di sotto dei 2 °C, i ricercatori hanno proposto uno scenario climatico che prevede un’economia energetica futura a basse emissioni di carbonio, in grado di fornire 100mila Terawattora di elettricità pulita entro il 2050. Si tratta di cinque volte tutta l'elettricità pulita prodotta nel mondo oggi e richiederebbe un sistema di alimentazione 6-8 volte più grande in termini di capacità totale. Servirebbero investimenti compresi tra 78 e 130 migliaia di miliardi di dollari, avverte lo studio, per applicare questo modello di sviluppo.
Scienziati, giovani e numerose organizzazioni della società civile hanno avvertito a più riprese che, se la temperatura globale media aumentasse anche solo di 2 °C, potremmo assistere a un aumento significativo di eventi meteorologici estremi, da giornate estremamente calde, a forti piogge e inondazioni, a siccità diffuse. Gli incendi boschivi diventerebbero più frequenti, mentre il livello del mare aumenterebbe, mettendo le aree costiere basse e le piccole isole a rischio di inondazioni e mareggiate. Centinaia di milioni di persone sarebbero costrette a emigrare da aree divenute inadatte a ospitare la vita umana, mentre i virus troverebbero un clima più accogliente per la loro diffusione.
L’accordo di Parigi
Tra previsioni inascoltate e promesse mancate, il quadro attuale sembra tutt’altro che roseo. Nel 2018 si sono investiti circa 800 miliardi di dollari nell’estrazione di petrolio e gas (upstream oil&gas) a fronte di circa 550 nei settori a basso impatto ambientale (rinnovabili, integrazione dei sistemi energetici). Nel frattempo, le emissioni di CO2 da combustione fossile continuano ad aumentare. Lo scorso 13 ottobre l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) ha pubblicato il World Energy Outlook (Weo) 2020 avvertendo che, “senza un grande cambiamento nelle politiche dei governi, non c'è segno di un rapido declino” dei combustibili fossili. Le emissioni globali dovrebbero riprendersi più lentamente che dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, ma il mondo è ancora lontano da una ripresa sostenibile. Nello scenario di sviluppo sostenibile, per ottenere una riduzione delle emissioni di circa il 40% entro il 2030, è necessario che le fonti a basse emissioni forniscano in quell’anno quasi il 75% della produzione globale di elettricità, rispetto a meno del 40% nel 2019 e che oltre il 50% delle autovetture vendute in tutto il mondo nel 2030 siano elettriche, rispetto al 2,5% nel 2019.
Nello scenario delle politiche dichiarate, che riflette gli obiettivi politici annunciati oggi, la domanda globale di energia riprende il suo livello pre-crisi all'inizio del 2023.
I dati più recenti sul livello di emissioni di di ossido di carbonio in atmosfera confermano che l’effettiva attuazione degli impegni di Parigi sul clima è incerta, ed è solo una magra consolazione il fatto che l’Unione Europea si stia impegnando molto di più di tutti gli altri Paesi. L’accordo di Parigi è stato criticato dagli scienziati per il livello modesto degli impegni che gli Stati nazionali vorrebbero assumere in risposta all’emergenza climatica. Ma è il processo negoziale che si è rivelato negli ultimi anni incerto e tortuoso.
Il primo nodo riguarda il mercato del carbonio. Alla COP 25 di Madrid, le parti non sono state in grado di trovare l’intesa sull’attuazione dell'articolo 6, relativo al ruolo dei mercati e del commercio internazionale del carbonio come strumento per facilitare gli impegni dei Paesi. I mercati del carbonio consentono ai Paesi di richiedere crediti di anidride carbonica assorbita dalla vegetazione e sequestrata nella stessa vegetazione e nei suoli, e per gli sforzi di riduzione delle emissioni. L’opposizione di un gruppo ristretto di Paesi (Brasile, Australia e Arabia Saudita soprattutto) ha spinto a rinviare le decisioni alla COP 26.
Il secondo aspetto riguarda i “contributi determinati a livello nazionale” (o Nationally determined contributions, Ndc), che i governi devono presentare alle Nazioni Unite per rappresentare la misura dei propri impegni per ridurre le emissioni e migliorare la resilienza agli impatti dei cambiamenti climatici. I Paesi dovrebbero presentare nuovi piani di riduzione del carbonio entro la fine di quest’anno ma, hanno osservato i ricercatori del Climate action tracker, diversi Paesi sono ancora “riluttanti a fissare obiettivi” e molte nazioni povere stanno ancora cercando di investire nel carbone.
In terzo luogo, i Paesi sviluppati si sono impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari all'anno entro il 2020, per sostenere gli sforzi di mitigazione e adattamento nei Paesi in via di sviluppo. Dalla crescita di questi Paesi infatti proverrà gran parte della domanda di energia nei prossimi anni e si deve evitare che venga soddisfatta con fonti fossili e quindi con un peggioramento dell’effetto serra. L’Unione europea ha rinnovato il suo impegno in materia, utilizzando fonti pubbliche e private, capitalizzando il Fondo verde per il clima e mobilitando gli investimenti ecologici. Tuttavia dall’ultimo rapporto Ocse intitolato “Finanziamento climatico fornito e mobilitato dai Paesi sviluppati nel 2013-2018’, citato da ilfattoquotidiano.it del 6 novembre, emerge che non solo le risorse erogate dall’Europa non sono sufficienti, ma vengono erogate per la maggior parte sotto forma di prestiti. I finanziamenti sono stati pari a 78,9 miliardi di dollari nel 2018, con un aumento dell’11% rispetto ai 71,2 miliardi del 2017, ma ancora 20 miliardi di dollari al di sotto dell’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari nel 2020. Il Rapporto mostra anche che il 70% del finanziamento complessivo per il clima nel 2018 è stato destinato ad attività di mitigazione del cambiamento climatico, cioè al taglio delle emissioni climalteranti, il 21% all’adattamento e il resto ad attività trasversali.
I prossimi passi
Nel novembre 2021 è prevista a Glasgow la prossima Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (COP26) a presidenza anglo-italiana. La conferenza è stata rinviata di un anno a causa della pandemia. Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha chiesto che entro quella data “ogni Paese, città, istituto finanziario e azienda” adotti piani per la transizione a zero emissioni nette entro il 2050. Guterres ha anche affermato che le nazioni più ricche del G20, che sono responsabili di oltre l'80% dell'inquinamento climatico, devono indicare la strada e ha riconosciuto l'Unione europea come leader verso un mondo a zero emissioni. Il governo britannico ha dichiarato il 2020 un "anno dell'azione per il clima". Presidenti e ministri riferiranno dei progressi compiuti dall’accordo di Parigi ma si spera siano prese decisioni su come ridurre le emissioni di carbonio. La COP precedente, quella di Madrid, è stata la più lunga di sempre ma è stata ricordata per l’intervento di Greta Thunberg più che per gli accordi tra i governi.
di Andrea De Tommasi