Climate change: allarmismo eccessivo o catastrofe annunciata?
La maggioranza degli scienzati ci avverte che entro pochi anni il riscaldamento globale supererà la soglia del non ritorno. Alcuni sono scettici. Possiamo permetterci di aspettare per verificare chi avrà ragione?
di Enrico Sassoon
8 giugno 2020
Lo strato di ghiaccio che copre la Groenlandia si sta sciogliendo a un ritmo così accelerato che viene ormai ritenuto probabile che abbia superato il punto di non ritorno e che possa rappresentare nei prossimi due decenni un fattore primario di innalzamento del livello dei mari in tutto il mondo. L’intero Artico, rilevano gli studi più recenti della americana National Academy of Science, si sta riscaldando a un ritmo doppio rispetto al resto del pianeta e lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia ne è l’effetto più visibile. La perdita di ghiaccio era stata stimata in 400 miliardi di tonnellate nel solo 2012, circa il quadruplo rispetto al 2003. Dopo una stasi nel 2013-2014, spiegata dall’Oscillazione Nord-Atlantica, negli anni scorsi il processo è tornato ad accelerare e la conclusione che se ne trae è che con ogni probabilità le previsioni degli effetti del riscaldamento globale sul pianeta sono state finora fin troppo prudenziali. La realtà sembra essere più grave del previsto.
Le proiezioni correnti relative all’aumento della temperatura media del globo prevedono che in presenza di un innalzamento della temperatura media di 2 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale, il livello medio dei mari salirebbe di oltre 60 centimetri mettendo a rischio di inondazione aree costiere abitate da centinaia di milioni di persone. Uno studio pubblicato su Nature ed effettuato tramite osservazioni da satellite continuative per 40 anni, indica che lo scioglimento dei ghiacci sta procedendo al ritmo più rapido in oltre 350 anni.
All’altro estremo del mondo, anche l’Antartide sta rivelando un’accelerazione nello scioglimento dei ghiacci ben oltre le previsioni. Pur con differenze tra area ed area, nel suo insieme l’Antartide ha perso oltre 250 miliardi di tonnellate di ghiaccio in ciascuno degli ultimi dieci anni contro una media di 40 all’anno negli anni Ottanta. Il ritmo di scioglimento attuale è poi triplicato rispetto al 2007. La conclusione è che a questo ritmo l’effetto sarà di aggiungere altri 20 centimetri al livello dei mari entro fine secolo. Con una avvertenza però: se l’aumento della temperatura media, calcolato già in 1,5 gradi rispetto all’epoca pre-industriale, supererà anche di poco i 2 gradi centigradi, si romperà l’equilibrio e lo scioglimento toccherà livelli ancora maggiori. La non rassicurante conclusione della National Academy of Science è che il punto di non ritorno possa essere superato a breve, se già non lo ha fatto. Potrebbe essere ormai impossibile per l’umanità mitigare gli effetti delle emissioni di gas serra in tempo per frenare il riscaldamento globale e impedire che si verifichino gli effetti catastrofici come quello descritto.
Tra realismo e catastrofismo
Di fronte a fenomeni come quello dello scioglimento dei ghiacci e dell’innalzamento dei mari ci si dovrebbe aspettare un aumento esponenziale delle preoccupazioni di individui, gruppi e Stati in tutto il mondo, con misure draconiane assunte a livello sovranazionale per fare fronte a un tema che, essendo palesemente di natura globale, richiede necessariamente soluzioni globali. È invece evidente che, nonostante gli Earth Day, le tartarughe e i capodogli con chili di plastica nello stomaco o l’emozione creata dagli appelli di personalità di primo piano come l’ex-presidente Usa Al Gore o da testimoni estemporanei come l’adolescente Greta Thunberg, siamo ben lontani da una estesa levata di scudi, da richieste di provvedimenti realmente efficaci e dalla diffusione di una preoccupazione acuta e condivisa.
Un recente articolo del New York Times sul cambiamento climatico portava l’esplicito titolo “Time to Panic”. Ma, nonostante nei mesi scorsi le Nazioni Unite, attraverso l’Intergovernmental Panel on Climate Change che da decenni ammonisce sulle prospettive del riscaldamento globale, abbiano lanciato un allarme avvertendoci che è possibile che per il 2030 il suddetto punto di non ritorno possa essere superato almeno per quanto riguarda l’aumento di 0,5 gradi che potrebbe fare la differenza, il panico, o almeno il senso di urgenza, non sembrano ancora esserci.
La cosa va sottolineata: centinaia di scienziati coordinati dall’Onu, che da decenni ammoniscono inascoltati della possibilità di un catastrofico aumento delle temperature con tutte le conseguenze analiticamente elencate, avvertono della possibilità che tra una dozzina d’anni il mondo possa girare un angolo fatale e avviarsi verso mutamenti climatici irreversibili e il suddetto mondo, ossia i suoi 7,5 miliardi di abitanti, sostanzialmente ne prende atto e continua più o meno business as usual.
È ben vero che in questi anni si è assistito a una mobilitazione crescente e che singoli cittadini, pubbliche amministrazioni, gruppi più o meno organizzati, imprese, produttori di energia, utilities, regioni, Stati e istituzioni sovranazionali ben consapevoli della situazione e delle minacce, e che un numero imprecisato di misure anche molto efficaci sono state prese e vengono quotidianamente assunte. E questo è certamente vero. Resta che questa ampia mobilitazione ha per ora effetti limitati ed è del tutto insufficiente a scongiurare che la minaccia ventilata dall’Onu e da altri si concretizzi.
Non solo, queste prese di posizione e queste misure contrastano con movimenti di segno contrario non irrilevanti: per esempio, la rivolta dei gilet jaunes in Francia, diretta contro l’aumento dei prezzi sui carburanti voluto da Macron anche per scopi di contrasto all’inquinamento; o l’indisponibilità dei cittadini americani interpellati in relazione al global warming che in stragrande maggioranza hanno risposto di essere disponibili a sopportare un maggior costo per politiche legate al cambiamento climatico di 1 dollaro (uno!) al mese, e solo in minima parte di un comunque risibile ammontare di 10 dollari al mese.
È certamente ben difficile per l’opinione pubblica di qualsiasi Paese arrivare a comprendere la portata del fenomeno del riscaldamento globale e del cambiamento climatico, anche se la percezione del cambiamento è avvertibile a livello personale o attraverso le notizie che giungono da ogni parte del mondo. L’effetto di fenomeni atmosferici sempre più intensi ed estremi è esperienza sempre più comune, dai più forti e frequenti uragani nel Golfo del Messico o nel Sud Est asiatico, ai fenomeni di desertificazione del Sud Sahara, alla contrazione dei ghiacciai e alle bombe d’acqua nelle città delle fasce climatiche temperate, Italia inclusa. Ma è per chiunque arduo raffigurarsi questi cambiamenti come parte di uno schema globale destinato a rafforzarsi nel tempo a meno che non vengano prese misure incredibilmente ampie, generalizzate e costose. Limitare o neutralizzare il futuro aumento delle temperature, anche solo di quello 0,5% che costituisce oggi l’obiettivo a breve, richiede di tagliare drasticamente le emissioni di gas serra, il che a sua volta richiede decise misure nel campo della produzione e consumo di energia, nelle modalità di trasporto con tutti i mezzi terrestri, marini e aerei, la modifica di impianti di produzione o l’ammodernamento degli impianti di riscaldamento o condizionamento nelle città. Misure che solo in parte dipendono dalla volontà e dalla percezione individuale e che invece in massima parte sono funzione di decisioni politiche pubbliche, spesso di non facile o di impopolare adozione.
Lo sconcerto non può, peraltro, che aumentare quando negli stessi giorni il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres (nel dicembre 2018 a Katowice, per l’apertura della conferenza Cop 24) dichiara che il mondo non si sta muovendo abbastanza velocemente per prevenire una rottura climatica irreversibile e catastrofica, mentre il presidente Trump al contrario ribadisce il distacco degli Usa dagli accordi di Parigi del 2014 e il proprio scetticismo sulle responsabilità dell’azione umana sul clima, prendendo le distanze da un rapporto della sua stessa Amministrazione (il Fourth National Climate Assesment elaborato da ben 13 agenzie federali) che ne dimostra l’inequivocabile connessione.
Un ragionevole panico
Stilare l’elenco delle catastrofiche conseguenze di un aumento delle temperature del globo di 2 (ma anche di 3 o 4, gradi centigradi secondo altri scenari) rispetto al benchmark è probabilmente superfluo, tanto se ne scrive e se ne parla. Ma è chiaro che, a seconda delle ipotesi, i danni saranno crescenti e riguarderanno tutti poiché i mutamenti del clima comportano non solo l’aumento delle temperature, lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento dei mari, ma anche il collasso delle barriere coralline, il declino di alcune specie animali e la scomparsa di altre, una riduzione della biodiversità nella flora e nella fauna, la desertificazione di alcune aree solo in parte compensata da un miglioramento in zone oggi permanentemente gelate, una minore produzione alimentare, scarsità d’acqua con conflitti connessi, e via dicendo. Per fare fronte all’immensità di questi effetti un punto di riferimento in parte operativo e in parte solo etico e ispirativo è dato dai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile pubblicati qualche anno fa dall’Onu e noti come Sustainable Development Goals (SDG).
Resta che il tempo a disposizione, se si decide di propendere per le previsioni più pessimiste, è piuttosto limitato e che, come ha scritto Enrico Giovannini nel Rapporto Macrotrends 2019-20 (Harvard Business Review Italia) occorre accentuare e accelerare l’adozione di misure di mitigazione e rovesciamento dei trend in corso da parte di tutti i Governi di tutti gli Stati, incrementando gli investimenti nel mondo produttivo e reindirizzando pesantemente i comportamenti e le abitudini di miliardi di persone. Il problema non consiste tanto nell’informare i cittadini, né nel convincerli della realtà dei fatti o della necessità dei cambiamenti, quanto nel generare la pressione politica che occorre per indurre le amministrazioni pubbliche, ben attente alle prospettive politiche di breve periodo, ad adottare misure estremamente costose e persuadere i cittadini che non solo ne vale la pena, ma che non esiste alternativa se si vuole evitare il peggio. Magari non per noi, ma per i nostri figli e i nostri nipoti
In poche parole occorre, secondo alcuni, generare un sano senso di panico. È questa la convinzione, tra gli altri, dell’autore di un libro recentissimo che sta avendo un impatto estremamente ampio in tutto il mondo: David Wallace-Wells, autore di The Uninhabitable Earth: Life After Warming. L’opera è scientifica ma risuona di un tono alquanto millenaristico più vicino all’atmosfera del Vecchio Testamento che non a un lavoro basato su dati e fatti concepito per ottenere risultati concreti di azione. Tono che peraltro non ne inficia la validità. Per l’autore siamo al dunque e, per farla breve, sostiene senza mezzi termini che se non facciamo ciò che è necessario ora il collasso della nostra civiltà e l’estinzione del mondo naturale sono ormai all’orizzonte. Di fronte alle prove evidenti di ciò che si sta verificando, c’è solo da stupirsi che non sia ovunque diffuso un acuto senso di allarme. Dunque, occorre generarlo: l’era del panico climatico è giunta.
Perché non ci sia panico in questo frangente è presto detto: non solo i politici riluttanti a prendere costose misure impopolari, ma gli stessi scienziati che da tempo denunciano la situazione si sono mostrati poco disposti a generare eccessivi allarmi. Il climatologo James Hansen, che testimoniò di fronte al Congresso nel 1988 per avvertire dell’imminente global warming, ha bollato questo atteggiamento come “reticenza scientifica”, dal suo punto di vista abbastanza inspiegabile: gli oncologi, per esempio e per contrasto, non sono di norma reticenti ad andare alla televisione e informare il pubblico su tutti i pericoli del cancro. Ma sul clima la cosa è diversa.
Siamo però al punto che ulteriori reticenze sono assimilabili a un comportamento criminoso o, quantomeno, autolesionista. Il cambiamento climatico è una crisi in atto e richiede risposte globali aggressive. In che altro modo potremmo riuscire a ridurre le emissioni dei gas serra del 45% tra il 2010 e il 2030, come richiedono gli obiettivi internazionali, senza misure vincolanti e urgenti? Non si tratta, dice Wallace-Wells, di diventare isterici, è solo la logica risposta a un problema dai contorni evidenti. E, peraltro, metodologie e strumenti in gran parte esistono già, si tratta di metterli in atto in modo più veloce e sistematico. Il che ci riporta alla difficoltà di prendere decisioni politiche difficili e all’esigenza di abbattere il muro di noncuranza o indifferenza che abbiamo costruito attorno a noi.
La “saggezza” di un pensiero catastrofista
Abbattere muri non è esercizio facile, quando sono barriere o condizionamenti mentali o comportamentali. L’allarmismo, se ben diretto, può essere un utile strumento. Osservando a posteriori, il 2018 potrebbe avere rappresentato uno spartiacque che separa il “fatalismo” scientifico e politico precedente da una sorta di nuova consapevolezza dell’utilità, o perfino auspicabilità, di un deciso allarmismo. Dato che la ragionevolezza precedente non ha sortito i risultati sperati, e dato l’aggravamento della salute del pianeta, è ragionevole e saggio cambiare registro e diffondere un po’ di panico.
E questo vale a maggior ragione quando si considera che l’obiettivo attuale, che molti già considerano poco realistico, è limitare l’aumento della temperatura media restando nei 2 gradi, mentre scenari compresi fra i 2 e i 4 gradi per la fine del secolo non sono da escludere se non si farà rapidamente ciò che è richiesto. Infatti, la tempistica di adozione delle misure di abbattimento dei gas serra è cruciale rispetto al risultato. Secondo il Global Carbon Project, se si fosse iniziato nel 2000 un serio processo di decarbonizzazione globale, sarebbe stato sufficiente abbattere le emissioni di solo il 2% all’anno per contenere il riscaldamento nei 2 gradi. Iniziando oggi la riduzione deve toccare il 5% all’anno. Se aspetteremo altri 10 anni, la riduzione annua sfiorerà il 10%, un impatto del tutto inimmaginabile nelle attuali condizioni economiche e scientifiche. Un po’ di allarme, dunque, può non essere fuori luogo.
Anche perché alcuni episodi della nostra storia recente dimostrano che, magari inaspettatamente, qualche decisa avvertenza ha funzionato. Quando Rachel Carson pubblicò il suo Primavera silenziosa nel 1962, libro alla base del movimento ambientalista, subì attacchi a 360%, ma la sua opera divenne rapidamente un bestseller mondiale. Nonostante le critiche che sostenevano che avesse esagerato e provocato inutili allarmi, dopo pochi anni le sue denunce portarono all’abolizione dell’uso del DDT prima in America e poi nel mondo intero. Un caso di evidente efficacia di un allarmismo ben mirato.
Ma l’argomentazione forse più convincente a favore di un “saggio pensiero catastrofista” è di carattere più psicologico e comportamentale. I nostri riflessi mentali, sostiene ancora Wallace-Wells, si oppongono ad aspettative troppo negative e tendono a ignorarle o a negarle. Molti di noi sono razionalmente convinti di quanto sta succedendo nel campo del global warming e del cambiamento climatico e delle catastrofiche conseguenze dell’inazione, ma tendono a rinviare questi possibili accadimenti nel tempo nell’illusione, o nella speranza, che la scienza trovi prima o poi soluzioni indolori che ci risparmino scelte difficili oggi. Gli studi sull’economia comportamentale da Kahneman e Tversky in poi ci hanno chiarito in che modo i nostri meccanismi mentali ci inducono a scelte deviate, solo in apparenza coerenti con i nostri interessi, ma spesso invece in netto contrasto. Meccanismi che sembrano alquanto simili alla nostra relazione con gli accadimenti che riguardano il cambiamento climatico.
L’obiettivo non è semplice ma è raggiungibile. Il teorico dell’ecologia Timothy Morton chiama la somma di tutti i nostri limiti e pregiudizi legati alle catastrofi future un “iper-oggetto”, un fattore concettuale così ampio e complesso da non potere essere realmente compreso. Lo stesso accade, secondo l’esperto legale Cass Sunstein, quando ci poniamo di fronte alle probabilità di eventi rischiosi, che tendiamo a sottovalutare sistematicamente.
È dunque ragionevole cercare di spezzare questi meccanismi mentali, fatalismi, aspettative irrealistiche e bias cognitivi con un una decisa presa di coscienza e assunzione di responsabilità. In fondo, il tempo è poco e il nostro interesse, come individui e come specie, non è legato a rischi di lungo termine ma di breve, anzi brevissimo, periodo. Dobbiamo dunque comportarci di conseguenza.
di Enrico Sassoon,direttore responsabile ed editore di Harvard Business Review Italia (Strategiqs Edizioni).
Pubblicato nel novembre 2019 in “Progetto Macrotrends 2019-2020” di Harvard Business Review Italia.