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Ecosistemi marini: un nuovo indice per salvare le specie più vulnerabili

In uno scenario ad alte emissioni, l'87% della flora e fauna del mare subirà impatti significativi entro il 2100. Tropici, regioni polari e aree costiere le località a rischio. La mitigazione potrebbe portare molti benefici, soprattutto al settore ittico e ai Paesi a basso reddito.

di Flavio Natale

“Il cambiamento climatico ha un impatto significativo su tutta la vita marina. Perciò, ogni strategia di adattamento e mitigazione richiede una solida comprensione dei rischi per le specie, gli ecosistemi e le società umane”. Così si legge nella ricerca “A climate risk index for marine life” pubblicata il 22 agosto sulla rivista scientifica Nature climate change: lo studio, prodotto da un team internazionale di ricercatori e ricercatrici, ha individuato un indice unificato per valutare su scala globale, nazionale e locale i rischi che il cambiamento climatico genera per la tutela della vita marina. L'indice di rischio climatico è stato applicato a 24.975 specie marine (principalmente animali, ma anche piante e batteri), in base alla sensibilità attuale della singola specie alle variazioni del clima, alla prevista esposizione futura al cambiamento climatico, al potenziale di adattamento della specie al surriscaldamento globale. L’indice è stato costruito sulla base di due tipi di scenari: quello ad alte emissioni e quello ad alta mitigazione.


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“In uno scenario a emissioni elevate, si prevede che l'87% delle specie marine subirà gli impatti negativi dei cambiamenti climatici nella maggior parte della propria area geografica entro il 2100”, si legge nella ricerca, generando conseguenze dirette anche sulla società umana, in particolare nei Paesi a basso reddito con un’elevata dipendenza dalla pesca. La mitigazione delle emissioni (secondo scenario) riduce invece il rischio per quasi tutte le specie marine (98,2%), migliora la stabilità dell'ecosistema e avvantaggia le popolazioni nei Paesi a basso reddito che soffrono di insicurezza alimentare. Tra gli animali, secondo lo studio, i molluschi, i pesci con le pinne raggiate e i cefalopodi sono le specie che beneficerebbero maggiormente della mitigazione. “Questi gruppi sono molto importanti per il settore ittico”, sottolinea il team di ricerca, suggerendo che la pesca può beneficiare in modo significativo della mitigazione. Nello scenario ad alte emissioni, invece, le specie a rischio maggiore, oltre quelle economicamente più sfruttate, sono quelle che rientrano nei cosiddetti “grandi predatori”, considerati “sproporzionalmente vulnerabili” poiché rappresentano una piccola frazione della biomassa marina, sono rari e spesso economicamente preziosi. Le aree geografiche dove gli ecosistemi sono a rischio maggiore sono invece i tropici, le regioni polari e le aree costiere, “zone ad alta biodiversità”.

In questo senso, una valutazione del rischio climatico mirata per ogni specie e area geografica può aiutare a migliorare le operazioni di conservazione marina e la gestione della pesca, poiché “il rischio varia tra le specie e all'interno della distribuzione geografica di ciascuna specie”. In questo modo, si possono individuare gli ecosistemi prioritari che hanno urgente bisogno di operazioni di tutela, tanto a livello globale, quanto sul piano nazionale e locale, dove è auspicabile, sottolinea la ricerca, proteggere almeno il 30% degli oceani entro il 2030. L’indice elaborato dal team può anche supportare in modo significativo il settore ittico, in modo da orientare le attività commerciali nelle aree meno critiche.

Uno sguardo al futuro. Lo studio identifica anche alcune linee guida per i prossimi anni, rivolte in particolare ai policy makers. Un punto di partenza irrinunciabile è la necessità di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, per mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici sulla vita marina. Inoltre, “bisogna rafforzare la cooperazione e i finanziamenti internazionali per affrontare le disuguaglianze socioeconomiche nella gestione del rischio climatico, in particolare per i Paesi a basso reddito con un’elevata dipendenza dalla pesca”. Infine, lo studio propone di usare l’indice di rischio climatico su scala globale, in modo da stabilire con precisione gli ecosistemi e le specie da tutelare, per sviluppare strategie del settore ittico sostenibili e monitorare l’evoluzione del rischio nei prossimi anni.

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giovedì 1 settembre 2022