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È economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale nell’era del Coronavirus?

Il lockdown ha avuto un impatto benefico sui parametri ambientali, ma resta da capire cosa accadrà con il progressivo ritorno alla normalità.

 di Umberto Bertelè

1 giugno 2020

“Che fine ha fatto Greta?”, si chiedeva La Repubblica in un articolo del 22 marzo scorso. Ancora a fine febbraio, meno di un mese prima, Greta Thunberg era riuscita a portare in piazza 15mila giovani per il Bristol youth strike 4 climate (Bys4c) event e a dicembre - al massimo della notorietà - era stata posta dalla rivista Time in copertina come 2019 Person of the year, dopo gli interventi a Davos e all’Onu.

Poi di colpo, con l’arrivo del lockdown in Europa e negli Usa, il quasi oblio: a testimonianza della velocità con cui nel giro di pochi giorni erano radicalmente cambiate le priorità delle persone, meno preoccupate per l’impatto - percepito come lontano nel tempo - del cambiamento climatico generato dal global warming che non per i rischi immediati per la salute e la stessa sopravvivenza e quelli appena successivi connessi con le pesanti conseguenze economiche e occupazionali (30 milioni di disoccupati nell’Ue e oltre 30 negli Usa prima della riapertura) delle restrizioni. Con il lockdown che viceversa, bloccando larga parte delle attività e riducendo drasticamente gli spostamenti, aveva un effetto benefico, ma temporaneo (a meno di una poco auspicabile caduta permanente dell’economia), su tutti i parametri ambientali.

E meno di un mese dopo, il 14 aprile, il Financial Times titolava un suo corposo servizio su questo tema “How coronavirus stalled climate change momentum – Emissions have fallen but the pandemic will hit policy commitments as nations look to kick-start their economies”. E, in due successivi articoli degli inizi di maggio, le domande (in evidenza nei titoli) erano: “Can companies still afford to care about sustainability?” e “Can we tackle both climate change and Covid-19 recovery?”.

Prima del lockdown: con l’uscita dalla “grande crisi” l’ambiente conquista una posizione di testa nella scala delle priorità sociali 

Il tema “ambiente” – la guerra contro il global warming ma anche quella contro l’uso della plastica o contro l’inquinamento urbano – aveva assunto, con la ripresa dell’economia mondiale dopo la grande crisi iniziata nel 2008, una rilevanza quasi contagiosa. Non più riservato ai soli ambientalisti, esso riscuoteva ampi consensi (o almeno simpatie) in fasce crescenti della popolazione, fra i giovani in primo luogo, anche se non era altrettanto diffusa la coscienza dei costi e dei trade-off che il perseguimento degli obiettivi ambientali, la decarbonizzazione in primo luogo, avrebbe comportato.

L’accordo formalmente sottoscritto da 195 Paesi nella conferenza sul clima di Parigi (Cop21) di dicembre 2015 aveva creato un clima di ottimismo sulla possibilità di un’azione internazionale coordinata e proiettata nel tempo contro il global warming, anche se già prima del lockdown ampie crepe si erano manifestate al momento di rendere operativi i primi passi degli accordi: da un lato per il rovesciamento di fronte degli Usa, dopo l’avvento alla presidenza di Trump, e dall’altro per l’ambivalenza della Cina, formalmente allineata con l’Ue ma pronta a ricorrere al carbone per incrementare la produzione elettrica. Con l’Ue però fortemente determinata non solo a proseguire i suoi programmi (quale quello relativo al mondo dell’auto diventato operativo quest’anno), ma a fare dell’ambiente - con il Green Deal europeo lanciato da Ursula von der Leyen al momento dell’assunzione della presidenza della Commissione - il punto focale della strategia di crescita dell’economia comunitaria.

L’attenzione verso l’ambiente sembrava essere diventata una sorta di obbligo pure per le imprese, non solo per obblighi di legge o ragioni d’immagine ma anche, per le quotate in particolare, come conseguenza dell’enorme successo dei fondi Esg (Environmental social and governance), la cui consistenza era arrivata a molte migliaia di miliardi di dollari, per statuto obbligati a investire in imprese eco-friendly, oltre che attente al benessere di dipendenti e collaboratori e al rispetto delle regole di governance. In questo contesto, il Ceo di BlackRock (primo gruppo di asset management al mondo) era arrivato, a seguito delle critiche di inazione da parte dei movimenti ambientalisti, a minacciare di votare contro la rielezione di Ceo e consiglieri delle imprese partecipate che non si fossero mostrate sufficientemente attive nel promuovere investimenti e comportamenti coerenti con gli obiettivi Esg.

Alle imprese, a partire da quelle quotate di dimensione maggiore, veniva sempre più richiesto non solo di essere eco-friendly, ma anche di evidenziare nei loro bilanci i rischi connessi con l’ambiente. Questo per la convinzione che il cambiamento climatico (in una proiezione temporale più lunga) e (soprattutto e da subito) le misure adottate dagli Stati per combatterlo - un mix di aiuti finanziari e di crescenti divieti - potessero stravolgere gli equilibri del sistema delle imprese, generando quella che in un mio articolo dello scorso anno avevo denominato eco-disruption (in analogia con la digital disruption): mettendo in estrema difficoltà comparti come quello petrolifero (per la spinta alla decarbonizzazione e l’incentivazione di fonti energetiche alternative pulite) e quello automobilistico tradizionale (costretto a chiudere molte attività e a investire pesantemente nell’elettrico) e facendone crescere altri più rispondenti alle nuove esigenze.

Di conseguenza, e coerentemente, i banchieri centrali (a partire da quello Uk) spingevano per l’affiancare agli stress test - diventati ormai una consuetudine dopo la “grande crisi” - i climate stress test, volti a valutare la resilienza delle banche a fronte dell’accentuarsi di fenomeni di eco-disruption. E si cominciava a parlare di green quantitative easing, immaginando interventi simili a quelli attuati da Draghi come capo della Bce, ma a favore questa volta delle grandi risorse che gli Stati e le imprese avrebbero dovuto mettere in gioco per la trasformazione ambientale. 

Con la profonda crisi causata dal lockdown, la sostenibilità economica e occupazionale torna a essere la priorità fondamentale 

Con la contrazione dei fatturati della grande maggioranza delle imprese a causa del lockdown, con la conseguente enfasi sulla liquidità, e quindi sul taglio dei costi e degli investimenti non indispensabili, come condizione per la  sopravvivenza di molte di esse, con l’enorme crescita dei “non occupati” o “parzialmente occupati”, con l’ovvio aumento delle incertezze sul futuro, le priorità sono immediatamente cambiate e tale cambiamento presumibilmente perdurerà almeno in parte sino al consolidarsi del rilancio - auspicato ma assolutamente incerto nei tempi e differenziato per Paesi - dell’economia. La maggior coscienza ambientale sviluppatasi negli ultimi anni permane come valore di fondo della società, come molte indagini svolte in vari Paesi evidenziano, ma con una influenza minore sui comportamenti delle imprese e sulle allocazioni delle risorse pubbliche.

Concentrando il discorso sulle imprese, l’enfasi sulla liquidità come condizione di sopravvivenza comporta per larga parte di esse - al di là delle dichiarazioni ufficiali (soprattutto delle quotate) sull’importanza degli obiettivi ambientali - un forte ridimensionamento o dilazione nel tempo degli investimenti strettamente finalizzati alla trasformazione ambientale.  Mentre l’attenzione all’ambiente permane, come obiettivo in sede di progettazione, nella messa a punto degli investimenti finalizzati alle esigenze di business: una attitudine importante, che potrà essere rafforzata ponendola come prerequisito per l’accesso alle risorse pubbliche specificamente erogate per il ri-decollo dell’economia.

I fondi Esg a loro volta, che devono proteggere il valore degli investimenti fatti, tendono a non forzare le imprese a investimenti ambientali che ne possano mettere a rischio la sopravvivenza e a limitare gli interventi critici a quelle patrimonialmente solide che palesemente rifiutino di darsi obiettivi ambientali: come di recente avvenuto con Lgim, primo gruppo di asset management inglese, che ha accusato Exxon mobil, di cui è uno dei principali azionisti, di  “lack of strategic ambition around climate change”, a differenza di Bp e Shell che si sono date l’obiettivo “net-zero”, e ha deciso di votare contro la riconferma di Ceo e chairman.

Il lockdown ha avuto un impatto benefico su tutti i parametri ambientali, ma cosa accadrà con il progressivo ritorno a una qualche forma di normalità? 

È ovvio che, nel momento in cui, per ordine dei governi, larga parte delle attività produttive e commerciali viene sospesa e gli spostamenti vengono quasi cancellati per il confinamento di una quota elevata della popolazione, le fonti inquinanti si riducono drasticamente e i parametri ambientali presentano tutti rilevanti miglioramenti. È ovvio che, più lenta sarà la ripresa, più lentamente i livelli di inquinamento torneranno ai valori precedenti la crisi da coronavirus. È altrettanto ovvio che questa non è la soluzione per i problemi ambientali, per cui sono necessari interventi più strutturali, anche se le nuove abitudini sviluppate durante il lockdown - quali il più diffuso utilizzo dell’e-commerce, il ricorso massiccio al remote working e  alla formazione a distanza, la telemedicina, la disponibilità di strumenti molto più efficienti per le interrelazioni online (per ragioni di lavoro ma non solo) e per l’organizzazione di eventi online (con partecipanti attivi sempre più numerosi) – lasceranno presumibilmente tracce profonde nei nostri stili di vita e di lavoro, riducendo ceteris paribus la pressione sull’ambiente.

Facebook ha ad esempio annunciato un profondo ripensamento della strutturazione delle sue attività, che prevede che nel giro di qualche anno la metà dei dipendenti operi in remote working e abbia una remunerazione correlata con il costo della vita dei luoghi in cui vivono: con un vantaggio economico diretto, dati il costo della vita ormai proibitivo nell’area di San Francisco, ma con un impatto significativo – se saranno molte le imprese della Silicon Valley che (come già Twitter, Square e Shopify) seguiranno la stessa strada – sul decongestionamento del territorio e sulla salute dell’ambiente. 

Di converso uno stimolo all’aumento della carbonizzazione potrebbe pervenire dal crollo dei prezzi dei carburanti fossili, del petrolio in primo luogo, legato non solo agli scontri fra Paesi produttori (Arabia Saudita, Russia e Usa i grandi protagonisti), ma anche e soprattutto dal crollo della domanda causato dalle restrizioni: crollo destinato ad attenuarsi con la progressiva uscita dal lockdown, ma molto sensibile a quelli che saranno i tempi della ripresa. Prezzi eccessivamente bassi delle materie prime fossili significano, soprattutto in una fase di emergenza economica, scarsi stimoli agli investimenti in energie pulite (quali la solare o l’eolica) o addirittura, come accennato in precedenza per la Cina, ricorso a materie prime come l’economicissimo carbone per alimentare le nuove centrali elettriche.

Gli elevati costi della “decarbonizzazione” e le difficoltà politiche per attuarla

La trasformazione ambientale non si identifica con la sola guerra al global warming, ma non c’è dubbio che sia quest’ultima a richiedere gli sforzi di gran lunga maggiori se si vuole puntare all’obiettivo, più o meno proiettato nel tempo, di rendere carbon neutral l’economia e la società mondiale: sforzi nel contempo economici, perché senza risorse si fa poca strada, e politici.

L’entità delle risorse da mettere in gioco è molto elevata: da parte in primo luogo delle imprese, non tutte in grado di sopravvivere ai nuovi standard (da cui il termine eco-disruption sopra accennato); da parte delle famiglie, che devono adeguare fra l’altro le loro abitazioni e i loro mezzi di trasporto privati (operazioni tanto più ardue quanto più stagnante è l’economia); da parte degli Stati, per incentivare le imprese e la famiglie e per finanziare gli interventi infrastrutturali necessari. Molto ambizioso, ad esempio, il Green new Deal, lanciato a fine 2018 negli Usa dai rappresentanti democratici alla Camera dopo il favorevole esito delle elezioni di mid term, ma bocciato dal Senato, che si proponeva di rendere carbon neutral l’economia statunitense entro il 2030.

Un obiettivo poi ripreso dai candidati democratici nelle successive primarie, che avevano anche definito le cifre annue (con gli ovvi limiti di credibilità delle promesse elettorali) che avrebbero fatto stanziare a livello federale se eletti presidenti: 170 miliardi di dollari l’anno Joe Biden, il più moderato, vincitore in pectore delle primarie; 300 miliardi Elisabeth Warren; addirittura oltre 1.600 Bernie Sanders, il più radicale, principale oppositore di Biden.

Meno ambizioso nella scelta dell’orizzonte temporale di raggiungimento della neutralità (il 2050 invece che il 2030) e nelle cifre (1000 miliardi di euro complessivi in 10 anni incluse però le risorse di imprese e Stati membri attivate), il Green Deal europeo, approvato formalmente dal Parlamento Ue con una richiesta di irrobustimento ma non operativo.

Le cifre citate sono troppo elevate o insufficienti (io propenderei per questa seconda ipotesi) per conseguire gli obiettivi dichiarati? Le cifre tengono conto della necessità di bilanciare l’inevitabile disruption di parte dell’economia provocata dalle nuove regole, prevedendo che sia la crescita delle attività eco-friendly a fornire la compensazione, o sono necessari investimenti addizionali agevolati dalla mano pubblica?

Accanto ai problemi economici, il conseguimento della neutralità su scala mondiale pone problemi politici molto severi: che cosa accade se non si trova un accordo almeno tra i tre principali attori della scena mondiale, Usa, Ue e Cina? È possibile che una singola area si muova da sola, come ufficialmente vuole fare l’Ue, senza poi porre vincoli agli scambi commerciali con le aree che, non dovendo rispettare gli stessi vincoli, sono più competitive (non è un caso a tale proposito che la Francia ponga come condizione per gli accordi post-Brexit il rispetto da parte dell’UK degli accordi di Parigi)? Chi si prende l’onere di aiutare finanziariamente le aree più povere del mondo a crescere nel rispetto delle regole di neutralità, affrontando costi sensibilmente maggiori, ad esempio nella produzione di energia - almeno fino a quando il prezzo delle materie prime fossili rimarrà basso - o nei trasporti? 

Non sono domande cui sono in grado di rispondere, ma che a mio avviso richiederebbero riflessioni molto più approfondite di quelle che molto spesso si sentono nei dibattiti o si trovano in letteratura e sulla stampa.

La guerra per la sostenibilità economica “post-lockdown” strappa risorse a quella per la sostenibilità ambientale

“I Paesi ricchi - i Paesi cioè con 1,3 miliardi di abitanti facenti capo all’Ocse stessa - sono destinati a subire un incremento complessivo dei loro debiti pubblici di almeno 17 trilioni di dollari (quasi otto volte il PIL italiano) come conseguenza della pandemia, per l’effetto congiunto delle misure di salvataggio e di stimolo già poste in atto e (in misura probabilmente maggiore) della caduta a picco prevista per le entrate fiscali. Il livello di indebitamento medio, pari a oltre 13mila dollari per abitante, passerà conseguentemente dal 109 al 137 per cento del PIL, ovvero al livello ante-Coronavirus dell’Italia. E le cose potrebbero andare anche peggio, se il recupero richiedesse più tempo di quanto previsto, ponendo addirittura dubbi sulla sostenibilità di lungo termine del debito stesso”. È una mia libera traduzione della dichiarazione dell’Ocse riportata con grandissima evidenza dal Financial Times il 24 maggio.

Rimangono ancora risorse per finanziare la “decarbonizzazione”?

È la domanda questa che echeggia il titolo dell’articolo: è economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale oppure il reperimento delle risorse necessarie per finanziare la trasformazione ambientale (la decarbonizzazione in primo luogo) - già arduo prima del coronavirus - sarà sempre più difficile in un mondo sempre più indebitato? È possibile utilizzare a vantaggio anche dell’ambiente almeno parte delle enormi risorse destinate al salvataggio delle imprese e delle famiglie e al rilancio dell’economia, come apparirebbe razionale fare e come da più parti è richiesto?

Per quanto concerne il primo punto, non c’è dubbio che, data la rilevanza delle cifre da mettere in gioco per finanziare la decarbonizzazione e dati i livelli di guardia raggiunti dall’indebitamento complessivo (pubblico più privato), un ulteriore consistente ricorso all’indebitamento non è impossibile – lo si è fatto ad esempio da sempre nei periodi di guerra – ma comporta rischi crescenti di destabilizzazione del sistema economico-finanziario mondiale. Si procederà o meno in questa direzione? Banalmente credo che giocherà un ruolo fondamentale il livello di percezione del pericolo: l’emergenza economica post-lockdown ha attirato grandi risorse perché è immediatamente visibile, i danni che il cambiamento climatico potrebbe provocare (dal rialzo del livello del mare alla desertificazione di un numero crescente di aree) al momento lo sono in misura molto ridotta.

Per quanto concerne il secondo punto, la Commissione Ue, nelle sue annuali raccomandazioni-Paese pubblicate il 20 maggio, ha auspicato che la grave recessione provocata dalla Pandemia sia l’occasione per accelerare la riforma dell’economia, sulla base soprattutto dei due obiettivi, trasformazione ambientale e trasformazione digitale, che l’UE stessa si è data. Simile la raccomandazione che The Economist del 21 maggio ha posto in copertina di un numero in larga parte dedicato alle tematiche ambientali: “A new opportunity to tackle climate change: Countries should seize the moment to flatten the climate curve. The pandemic shows how hard it will be to decarbonize - and creates an opportunity“. Sono considerazioni in linea di principio molto condivisibili, perché si rifanno all’esperienza storica che sono le grandi crisi che creano le opportunità per le grandi trasformazioni. Con un limite però: è a mio avviso molto ridotta la quota di risorse pubbliche post-lockdown destinate al rilancio dell’economia - l’unica che può essere impiegata anche con finalità ambientali - rispetto a quella volta a evitare i fallimenti delle imprese o a garantire un reddito alle famiglie colpite dalla crisi.

L’Italia, in questo contesto, soffre di una doppia criticità: ha meno risorse da mettere in gioco, dato il livello potenzialmente esplosivo del nostro debito pubblico; destina al rilancio una quota probabilmente più bassa rispetto ad altri Paesi, per la nostra tradizionale preferenza a mantenere in vita le imprese “decotte” (non faccio nomi) piuttosto che a investire in innovazione.

 

di Umberto Bertelè, professore emerito di Strategia al Politecnico di Milano


Pubblicato sul sito della School of Management del Politecnico di Milano (www.som.polimi.it)

lunedì 1 giugno 2020