Scienza, diritti, management: l’arbitrio al centro dell’era digitale
I rischi e le opportunità dell’accelerazione tecnologica. Diritti, interessi economici e bene comune, etica del management, sostenibilità e democrazia: il punto di vista di Francesco Varanini.
a cura di Niccolò Gori Sassoli
Secondo le sue riflessioni per affrontare l’“era digitale” bisogna imparare a usare in modo etico le tecnologie e ridefinire il significato dello sviluppo: da dove si comincia?
Dal ragionare su come gli strumenti digitali condizionano il nostro essere cittadini. Dal comprendere quanto la loro potenza e pervasività, la loro capacità di blandirci e condizionarci influenzino la partecipazione alla vita pubblica. Il nostro legame con le tecnologie non è infatti immediatamente evidente. Solo conoscendone le logiche retrostanti possiamo valutare come e perché svilupparle, usarle, valutarne i rischi, le opportunità e gli effetti.
Questioni complesse, la cui gestione spesso e volentieri è affidata a persone che crediamo abbiano conoscenze tecniche specializzate…
Non possiamo pretendere che tutti i cittadini siano dei tecnici e si interessino di questi argomenti. Ma dobbiamo ricordarci che i tecnici sono, prima di tutto, cittadini. Le persone a cui deleghiamo le decisioni – per esempio i medici, gli scienziati, i politici – sono cittadini come noi.
Bisogna considerare la scienza e la tecnica non come verità ma come strumenti che ci offrono una serie di possibilità, di soluzioni, quasi mai di certezze definitive. Ce lo sta dimostrando la pandemia, le evoluzioni delle cure, dei vaccini, dei protocolli sanitari.
Con l’avvento del Covid-19 si diffondono in occidente atteggiamenti di sfiducia nei confronti della scienza e delle istituzioni che, come cittadini di Paesi “ricchi e democratici”, pensavamo appartenessero ormai al passato. Quali sono le cause e le conseguenze del fenomeno, come affrontarlo?
Ci siamo dimenticati che la scienza non è neutrale: se ai tempi di Galileo era soggetta al vaglio della Chiesa, negli ultimi decenni è subordinata agli interessi del capitalismo finanziario. Ci sono poi le distorsioni operate dai media, le strumentalizzazioni a cui si prestano gli stessi scienziati, in particolare quelli che vanno in televisione a parlare di qualsiasi cosa, alimentando pseudoscienze e complottismi. Siamo sempre più dipendenti dalla scienza e dalla tecnica ma non sappiamo comprenderne la complessità e usarne le straordinarie applicazioni con spirito critico.
Dobbiamo poi considerare che gli scienziati di oggi, e ancor più i tecnologi, non hanno molta libertà nel fare ricerca. Gli investimenti nella ricerca arrivano per la maggior da privati che richiedono un ritorno in pochi anni. L’orientamento della ricerca al business è particolarmente evidente nell’industria digitale. L’obiettivo del profitto orienta il modo in cui vengono concepite le leggi che regolano l’applicazione delle tecnologie nella società.
Per esempio?
Prendiamo la normativa europea sulla privacy. Il testo parte da un’affermazione principale che tutela il diritto delle imprese di usare i dati delle persone e, solo dopo, specifica gli ambiti e le limitazioni con cui usare quei dati. Il regolamento, che rappresenta una positiva affermazione dei diritti, nasce per legittimare l’uso commerciale dei dati. Anche “il modello europeo” di norme relative a digitale e Intelligenza artificiale, che presumiamo essere “più etico” rispetto a quelli degli Stati Uniti o della Cina, è subordinato all’interesse superiore del business. E non ce ne accorgiamo, perché ignoriamo o trascuriamo il fatto che i politici a cui deleghiamo il compito di legiferare si avvalgono dei consigli dei tecnici, dei lobbisti, degli esperti, che sono innanzitutto difensori di interessi di parte.
Cosa possono fare i tecnici, i lobbisti, gli esperti, i manager per invertire questa tendenza?
Usare gli spazi di autonomia a loro disposizione per esercitare un giudizio critico. Muoversi nella consapevolezza di essere prima di tutto dei cittadini. Agire seguendo l’orgoglio di poter incidere sul bene comune, superando l’interesse individuale o di parte. La cultura del management storicamente si gioca sull’ambiguità tra la posizione di coloro che si considerano meri esecutori di una proprietà, di disegni altrui, e quella di coloro che consapevolmente interpretano un ruolo dotato di potere, assumendosi responsabilità, prendendosi spazi, rischi, seguendo la propria coscienza e le proprie capacità.
Le associazioni di rappresentanza della categoria possono trarre giovamento da queste riflessioni perché aiutano ad evidenziare come accanto alle competenze c’è la dimensione etica e politica dell’agire manageriale. Sono cose che non dovremmo vergognarci di dire, come invece accade, soprattutto ora che tante decisioni vengono determinate dagli algoritmi.
È un passaggio culturale da compiere, se non vogliamo continuare a lasciarci guidare solamente dal profitto, e vogliamo invece tornare a preoccuparci della biosfera, ciò da cui dipende non solo il benessere ma la stessa sopravvivenza umana. Da qui scaturisce la necessità di costruire una nuova etica dello sviluppo, un tema sul quale ci stiamo finalmente interrogando in una logica sistemica.
Si riferisce al concetto di sviluppo sostenibile proposto dall’Agenda 2030 dell’Onu?
Si, l’Agenda 2030 fornisce una serie di indicazioni morali e di obiettivi concreti che va in questa direzione. Muove dal presupposto che la grande capacità di incidere sulla Terra dell’umanità comporti un’urgente assunzione di responsabilità. Suggerisce che la vera innovazione della nostra epoca è riuscire a preservare, per le future generazioni, le condizioni che hanno permesso all’umanità di prosperare fino a oggi.
La Terra è un sistema finito ma la crescita a cui tendiamo sembra dover essere infinita: come risolvere questa contraddizione?
Dobbiamo costruire nuovi filoni di pensiero, rinunciare alla pretesa di sentirci al vertice dell’evoluzione. La via è stretta ma ci sono punti di passaggio: uno di questi sta nella nostra libertà di azione, in quello che possiamo fare come cittadini. Dobbiamo fare leva sulla caratteristica principale della nostra specie che è la saggezza, non la ragione. Le macchine possono ragionare più velocemente di noi ma non credo possano diventare sagge, avere intuizioni. Per coltivare questa umana saggezza servono nuovi percorsi educativi, capaci di generare una comprensione del mondo più ampia. Occorre superare la tendenza alla specializzazione verticale in discipline scientifiche sempre più prive di una visione d’insieme, evitare di affidarsi ciecamente alle strumentazioni tecniche e alle intelligenze artificiali.
Saremo saggi quando saremo consapevoli dei rischi impliciti in un progresso senza limiti, quando penseremo ai rischi che stiamo correndo. Si tratta anche di recuperare gli insegnamenti che, nel corso della storia, l’umanità ha dato a sé stessa. Quando i greci parlavano di hybris, per esempio, si riferivano all’arroganza dell’uomo rispetto all’ambiente, alla natura. In questo senso la pandemia è stato uno spartiacque che, svelando le nostre contraddizioni e i nostri limiti, potrebbe preparaci a gestire meglio le emergenze che verranno.
A proposito di contraddizioni, hybris e limiti: cosa pensa delle visioni del futuro transumaniste?
I movimenti transumanisti o postumanisti, che stanno cercando di diventare un mainstream culturale, propongono la possibilità di superare le capacità cognitive umane, e di sostituire il corpo con sistemi artificiali. È una prospettiva affascinante perché ci porta oltre i limiti, ci avvicina al divino, rispondendo quel bisogno di trascendenza che in fondo caratterizza da sempre l’umanità.
Ma è un salto nel vuoto. Credo che dobbiamo ricordarci di appartenere alla natura. La mente umana non è separabile dal corpo. L’ibridazione tra uomini e macchine rischia di andare tutta a svantaggio dell’umano. Sarebbe un’assoggettazione non solo della carne ma anche della mente. Se l’essere umano demanda troppi aspetti della propria esistenza a macchine automatiche si depaupera, si isterilisce.
Sul tema ha scritto di recente un articolo intitolato "La realtà aumentata come distruzione sociale", a cosa dobbiamo fare attenzione?
Dovremmo allontanarci dall’illusione di costruire in un mondo alternativo. Dovremmo smettere di ritenere la digitalizzazione come un processo irreversibile, ed evitare di idealizzare le novità tecnologiche, come per esempio il Metaverso che dovrebbe essere l’evoluzione di Facebook. So che facendo questi discorsi potrei essere definito un luddista, un nemico del progresso. Ma credo dovremmo chiederci: quale progresso vogliamo, in che direzione, a favore di chi.
Il luddismo non è un atteggiamento disprezzabile. Nel 1800 era l'atteggiamento ingenuo di persone che si opponevano alle macchine che toglievano loro il lavoro. Inizialmente si risolveva, inutilmente, nel distruggere le macchine. Ma poi l'ingenuità si è trasformata in consapevolezza ed è sfociata nell'azione sociale che ha portato alla nascita dei movimenti sindacali, delle mutue, all’affermazione dei diritti collettivi, a quel concetto di giustizia sociale su cui si sono fondate le democrazie.
Oggi il cambiamento che la tecnologia sta imponendo alle nostre vite è molto più profondo di quanto accaduto allora. Il primo passo è dunque osservare con spirito critico il processo di digitalizzazione. Possiamo notare come le democrazie siano minacciate non solo dall’esterno ma anche dall’interno. Il metaverso proposto di Zuckerberg è un caso esemplare. Una società privata, mossa dal proprio scopo di lucro, propone un mondo artificiale nel quale i cittadini dovrebbero vivere.
Una piccola élite economica, finanziaria, politica e tecnico-scientifica considera il resto dell’umanità come una massa di utenti e consumatori in preda all’irrazionalità, di cui occorre influenzare il comportamento tramite spinte gentili, affinché la loro vita sia “lunga, sana e migliore”.
Francesco Varanini è antropologo, formatore, manager, saggista, fautore dell’incontro tra la cultura umanistica e il management. Presidente di Assoetica. Il suo ultimo libro, Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati 2020, è dedicato ai temi affrontati nell’intervista.
a cura di Niccolò Gori Sassoli, giornalista