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Il potenziale trasformativo delle imprese pubbliche

Le imprese pubbliche italiane hanno un potenziale trasformativo ampiamente inespresso che, se adeguatamente valorizzato, potrebbe trainare uno sviluppo più equo e sostenibile generando benefici sistemici per l’economia, la società e l’ambiente.

di Niccolò Gori Sassoli

Le imprese pubbliche italiane hanno un potenziale trasformativo ampiamente inespresso che, se adeguatamente valorizzato, potrebbe trainare uno sviluppo più equo e sostenibile generando benefici sistemici per l’economia, la società e l’ambiente. Per concretizzare questo potenziale, tra l’altro, si dovrebbero individuare obiettivi di lungo periodo e rivederne i meccanismi di governance, investendo sulle competenze e la managerialità, anche creando commissioni di esperti indipendenti cui affidare l’incarico di gestire le imprese pubbliche in maniera più coordinata tra loro e indipendente dalla politica rispetto a quanto accade attualmente. È quanto propone il rapporto Missioni strategiche per le imprese pubbliche italiane, pubblicato all’inizio di luglio dalla Commissione Imprese e Sviluppo del Forum Disuguaglianze e Diversità al termine di un lavoro durato nove mesi che ha coinvolto in prima persona i vertici delle principali imprese pubbliche italiane, tra cui Cdp, Enel, Ferrovie dello Stato, Fincantieri, Gse, Leonardo, PagoPA, Poste Italiane, Saipem, Snam, Terna.

Nel Rapporto, che si focalizza sulle controllate dal ministero dell’Economia o dalla Cassa Depositi e Presiti ed esclude quindi le municipalizzate e le società controllate da enti locali, si trovano alcune informazioni quantitative che rivelano l’ampiezza e il peso delle imprese pubbliche nel contesto del sistema economico-produttivo e occupazionale nazionale. Sei delle prime dieci organizzazioni produttive attive in Italia in termini di fatturato sono controllate dallo Stato centrale. Queste imprese impiegano oltre 350mila persone, generano 17% degli investimenti fissi e il 17% della spesa in ricerca e sviluppo delle imprese italiane, pesano per circa il 29% sulla capitalizzazione complessiva della borsa di Milano, hanno portato allo Stato dividendi per circa 3 miliardi di euro all’anno (nel 2018), presidiano settori strategici come energia, difesa, trasporti, logistica, telecomunicazioni. Collegate a doppio filo alle filiere produttive delle piccole e medie imprese private, di cui sono allo stesso tempo fornitori e committenti di beni e servizi, le imprese pubbliche sono secondo il rapporto un volano per attivare quel balzo in avanti che il sistema-Italia necessita per cogliere le opportunità di questa fase ed accelerare la transizione verso la sostenibilità.

Un balzo coerente con gli Obiettivi dell’Agenda Onu 2030, in particolare col target del Goal 16 sull’efficacia e la responsabilità delle istituzioni, che potrebbe creare e redistribuire benefici, sostenibilità e innovazione su diversi livelli: nello specifico dei territori e delle filiere, nel quadro sistemico dell’economia nazionale e anche nella prospettiva europea, nel momento in cui l’Unione è chiamata a rafforzare la propria integrazione anche sul piano delle strategie industriali.

Per concretizzare queste potenzialità, il Rapporto individua tra l’altro alcune proposte che coinvolgono direttamente il management e la cultura manageriale, tra cui: costruire un forte ponte tecnico, anche tramite un Consiglio degli Esperti, che consenta un dialogo continuativo e permetta di fare squadra fra le imprese pubbliche e gli azionisti, in primis lo Stato; elaborare missioni strategiche, condivise dal Parlamento e fissate nel medio-lungo periodo in atti europei, relative alle sfide della società nell’immediato futuro come innovazione tecnologica e digitale, cambiamento climatico, invecchiamento della popolazione.  

Proposte che, si legge nel Rapporto, “vengono apprezzate da molti amministratori intervistati come garanzie rispetto a improprie torsioni dirigiste e a un non ammissibile appiattimento su obiettivi di breve respiro”. Dal confronto con gli amministratori delegati intervistati, basato sul metodo Chatham House Rule emerge la consapevolezza che le imprese pubbliche hanno una significativa capacità organizzativa e tecnologica, un notevole potenziale innovativo e di ricerca, una sviluppata efficienza manageriale e una conoscenza approfondita dei processi produttivi e dei mercati in cui operano.

Nello spirito degli allenaMenti di sostenibilità, per contribuire al dibattito sulla resilienza trasformativa si segnaliamo di seguito alcuni estratti e parole chiave del rapporto dedicato alla managerialità, utili ai lettori per approfondire ed “allenarsi”.

  • Continuando un’ormai centenaria tradizione italiana di forte capacità innovativa, ingegneristica e manageriale, esse [le imprese pubbliche] hanno spesso resistito al generale declino del Paese.

  • Le imprese pubbliche possono in alcuni casi perseguire missioni strategiche, ma ciò non avviene in modo sistematico e coordinato, bensì per iniziativa dei singoli manager.

  • I gruppi manageriali che hanno guidato le imprese pubbliche in questi anni hanno spesso realizzato scelte strategiche significative che hanno concorso, non solo a risultati aziendali buoni o brillanti ma anche a favorire l’innovazione e il presidio di attività ad alto contenuto tecnologico.

  • Dovrà instaurarsi una costante interlocuzione tra gli organi delle imprese e il Consiglio degli Esperti (configurata secondo le diverse competenze settoriali che questo esprime), regolata e assistita dai doverosi presidi di correttezza e riservatezza, affinché venga preservata la funzione manageriale. Si tratta di assicurare che l’assegnazione di indirizzi strategici espliciti attraverso giustificate e competenti nomine, non leda l’autonomia di quegli stessi manager, bensì la valorizzi, assicurando loro un percorso certo entro cui muoversi con risolutezza.

  • Il processo con cui attuare questo disegno deve assicurare che le missioni strategiche abbiano i tratti prima richiamati: essere tecnicamente rigorose e frutto di pubblico confronto, rimanere aperte all’autonoma interpretazione dei manager, mantenersi stabili ma adattabili in base agli esiti del monitoraggio.

  • Nonostante la forte attrezzatura tecnologica, organizzativa e manageriale esistente, emerge la consapevolezza di una certa sua sottoutilizzazione. Questo sembra essere fondamentalmente legato all’assenza di forti missioni strategiche pubbliche, a loro volta impossibili a definirsi senza le necessarie competenze tecniche in seno alle strutture amministrative dello Stato azionista. In assenza di questi requisiti, il management diventa autoreferenziale, vuoi a protezione di obiettivi di interesse pubblico costruiti isolamento, vuoi utilizzando la natura di impresa quotata come motivazione unica e limitante di ogni altra missione, in una lettura restrittiva delle opportunità di azione.

  • Il campione delle interviste si divide quasi a metà, fra quelli che percepiscono le implicazioni degli SDGs come degli inevitabili oneri da soddisfare, ove possibile, in modo procedurale e coloro che colgono questa opportunità per orientare le loro linee di attività entro binari condivisi dalla pluralità degli attori produttivi. In quest’ultimo caso, gli SDGs assumono il ruolo di cornice dentro cui prendono forma le più specifiche missioni, già intraprese autonomamente dal management.

  • Il rapporto con gli azionisti sembra essere in parte caratterizzato da alcuni fra questi atteggiamenti. Il cosiddetto management by numbers risalta dall’enfasi riposta sui KPI (Key Performance Indicators), parametri di natura prevalentemente finanziaria, presenti all’interno dei piani industriali pluriennali e pubblicati periodicamente nelle relazioni sui risultati trimestrali. Questo risulta particolarmente accentuato per le imprese quotate.

La sintesi del Rapporto

Il Rapporto completo

di Niccolò Gori Sassoli, giornalista

martedì 25 agosto 2020