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Fasola: “Non smettiamo mai di farci domande. Empatia e collaborazione al centro dei lavori del futuro”

La direttrice degli Affari pubblici di Randstad Italia sull’evoluzione del mercato dell’occupazione. Robotica e AI potrebbero essere un’opportunità per compensare il calo demografico. Giusto puntare sulle Stem, ma preservare anche il ruolo delle scienze umane.

venerdì 19 dicembre 2025
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Robotica e intelligenza artificiale stanno rivoluzionando il mercato del lavoro, sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta, e capire come andranno i prossimi anni non è semplice. Le variabili sono molte, e in alcuni casi non del tutto prevedibili. Perciò abbiamo chiesto l’opinione di Rossella Fasola, direttrice degli Affari pubblici di Randstad Italia (divisione nostrana della multinazionale olandese che opera nel settore delle risorse umane). La chiacchierata via zoom si è svolta durante un freddo venerdì di dicembre, con le luci natalizie già messe su.

In un vostro recente studio parlate di un mondo dell’occupazione in evoluzione: 10,5 milioni di lavoratori e lavoratrici altamente esposti nei prossimi anni, ma anche nuove professioni. Data scientist, ingegneri di machine learning, esperti di cybersecurity e di algoritmi. Pensa che si riuscirà a raggiungere veramente un equilibrio tra occupazione e sostituzione?

Me lo auguro molto. Non dimentichiamoci che sullo sfondo di questi ragionamenti, come Paese ma anche come continente, abbiamo un grande problema demografico che incombe. Vedo il bicchiere mezzo pieno per quanto riguarda l'avvento della rivoluzione digitale. Si tratta di un'opportunità per compensare il problema numerico che stiamo già toccando con mano. Non abbiamo sufficienti occupati, in gergo “coorti”, che entrano nel mercato del lavoro per coprire il fabbisogno delle coorti che escono dallo stesso mercato.

La vedo così: da un lato ci saranno nuove professioni, e i bambini che nascono oggi probabilmente non sapranno quale lavoro andranno a fare da grandi, dall’altro ci sono molte occupazioni che si stanno trasformando già da ora. Faccio un esempio. Ormai più di vent'anni fa, i magazzinieri venivano assunti se erano capaci di muovere i carichi, se fisicamente robusti e in possesso della patente B per guidare il muletto, che serve appunto per spostare le merci. Oggi i magazzini che andiamo gestire, e quindi la figura richiesta, sono completamente diversi, perché è tutto robotizzato. Servono tecnici che sappiano intervenire sulla macchina che si inceppa.

Sono d’accordo, però il rischio sostituzione resta. Ultimamente sul nostro sito abbiamo parlato di un caso: in Giappone i minimarket hanno sostituito i lavoratori con i robot. Quando i robot si trovano in difficoltà, entrano in gioco dei tecnici che, a distanza e attraverso i visori, danno loro una mano. Uno pensa che vengano assunti in Giappone, magari con uno stipendio più alto di quello da commesso. E invece provengono dalle Filippine, per pagarli di meno. Così non funziona, non trova?

È vero, però se ci pensa è un po' un processo che si è già verificato. Il tema della globalizzazione, anche del lavoro, noi lo stiamo affrontando da diversi decenni. Le faccio un altro esempio, più vicino a noi. Non esistono quasi più call center italiani, perché il costo della manodopera nel nostro Paese è tale per cui si è preferito farli gestire in altri Stati, spesso dell’Est Europa, come Albania, Romania, Polonia. Ti dicono che la comunicazione si svolgerà in lingua italiana, ma poi ti rendi conto che non è così. E questo processo è abbastanza speculare a quello che lei mi sta descrivendo.

Oggi ho ricevuto due chiamate, una dalla Francia e una da Cipro.

Appunto, è un fenomeno di delocalizzazione. E in alcuni Paesi dell’Est, chiamiamoli in via di sviluppo, si spera che più la domanda di lavoro crescerà e più aumenterà il salario. Anche se le condizionali di sicurezza sindacale non sono come le nostre.

Nel vostro studio parlate anche dell’evoluzione delle hard skill (come l'alfabetizzazione digitale e l'analisi dei dati) e, soprattutto, della riscoperta delle soft skill umane, come pensiero critico, creatività, intelligenza emotiva e problem-solving.

Le hard skill, o competenze tecniche, saranno sempre più importanti. Sarà necessaria una formazione tecnica e tecnologica. Che non riguarda solo l’intelligenza artificiale, ma anche la robotica, come l’esempio giapponese che lei citava. Da insegnare subito, sin da bambini. Per i nativi digitali sarà molto più semplice. Ma le generazioni un po’ di mezzo, mi ci metto anch’io, vanno accompagnate. Dobbiamo creare omogeneità nelle aziende per quanto riguarda le conoscenze tecnologiche.

Ma non possiamo basarci solo su quelle. Ci sono le competenze trasversali, che diventano ancora più importanti. La capacità di lavorare insieme e dimostrare empatia. Perché, parliamoci chiaro, le macchine non sono programmate per avere empatia. Questa caratteristica è tipica dell’intelligenza umana, e sarà fondamentale. Per questo penso che non saremo governati dalle macchine ma le governeremo. L’AI bisogna imparare a usarla, anche per garantirne un utilizzo più sano, giusto ed equilibrato.

Vero, però vedo comunque il rischio che l’intelligenza artificiale, pur se usata bene, allontani alla lunga le persone. Parlare con un bot disponibile e accondiscendente può essere più allettante che dialogare con qualcuno che ha idee diverse dalle tue. Al contrario di internet, nato come luogo per far incontrare le persone, con l’AI alla fine incontri sempre te stesso.

È un rischio che vedo anch’io. Il pericolo di isolamento e appiattimento della ragione, da un punto di vista non solo filosofico, ma concreto, reale. E questo rischio aumenta nelle nuove generazioni, che non hanno tutti i mezzi per discernere. Mi piace dire che è fondamentale tornare a Socrate, alla capacità maieutica di porsi delle domande. Se ci pensa è il cuore dell’intelligenza artificiale: noi non facciamo altro che porre alla macchina delle domande. E quanto più le domande saranno giuste tanto più precise saranno le risposte. Si parla tanto di materie Stem, ed è giusto andare in quella direzione, però attenzione a mantenere vivo l’insegnamento della filosofia e delle scienze umane. Non bisogna perdere il senso critico. Anche solo per imparare a fare ricerca su ChatGPT. Non smettiamo mai di farci domande.

Si vede che la questione del futuro le sta a cuore, come anche a Randstad. Perché la sua azienda ha deciso di diventare partner di Ecosistema Futuro?

Abbiamo creduto nella visione di Enrico Giovannini, che fin dall’inizio ha contribuito alla nascita del nostro centro di ricerca, Randstad Research, nel 2019. La prima volta che lo incontrai mi folgorò sulla via di Damasco. Ci disse che in Italia mancavano studi sull’evoluzione dei profili professionali e sui lavori del futuro. Essendo Randstad un'azienda che si occupa di questi temi, per me è stato illuminante. Quindi abbiamo iniziato a strutturare le nostre ricerche, anche grazie alla collaborazione con il professor Giovannini, immaginando e studiando i profili professionali dei prossimi anni. E nel momento in cui Giovannini ci ha parlato di Ecosistema Futuro, della creazione di un luogo per ragionare sui futuri possibili, l’abbiamo trovato assolutamente in linea con la nostra missione. Dentro Ecosistema Futuro la nostra ambizione è di poter dare un contributo con un forte taglio legato al mondo del lavoro. 

Invece qual è il percorso di vita che ha portato lei, in prima persona, a occuparsi di questi temi?

Io vengo da un’istruzione umanistica e giuridica. Ma all’interno di Randstad, e in particolare in questi ultimi sei anni in cui è nato il centro di ricerca, ho avuto la possibilità di approcciarmi a questi argomenti. Per esempio, capire come i megatrend impattano il mercato del lavoro è fondamentale per noi. Intercettarli vuol dire essere capaci di rispondere ai bisogni delle nostre aziende.

I megatrend sono da sempre anche materia narrativa. Libri, film, serie tv. C’è qualcosa che l’ha ispirata in questo senso?

Matrix. Pensi a quando è nata quella serie di film. Ha rappresentato una visione straordinariamente aderente a quello che poi è accaduto dopo. Portata all’estremo, certo: la macchina che cerca di prendere il sopravvento sull’essere umano, come l’essere umano sopravvive alla macchina. Ma è qualcosa che, in una maniera diversa, stiamo vivendo già oggi.