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La chiave della conoscenza nell’era digitale

Robotizzazione e intelligenza artificiale generano molti timori per l’impatto sul lavoro. La digitalizzazione delle aziende procede, ma per garantire l’occupazione occorre una formazione continua e qualificata.

di Stefano Scabbio 

“Come robot avrei potuto vivere per sempre, ma dico a tutti voi oggi che preferisco morire come uomo che vivere per tutta l’eternità come macchina. Per essere riconosciuto per chi sono e per ciò che sono. Niente di più, niente di meno. Non per la gloria, per l’approvazione, ma per la semplice verità di questo riconoscimento”.  In queste battute di Andrew, l’Uomo Bicentenario di Isaac Asimov (scrittore e divulgatore scientifico che per primo ha parlato di robotica) è racchiuso il significato del rapporto uomo-macchina. Per quanto intelligente e performante possa essere un robot, non raggiungerà mai le capacità dell’uomo tanto che la stessa macchina, se potesse decidere, sceglierebbe di essere uomo. Quello che manca alla macchina è l’umanità.

Questa consapevolezza e questo approccio sono alla base della ricerca “Humans wanted: robots need you” di ManpowerGroup nella quale si evidenzia come, anche a fronte del forte impatto dell’automazione nella ridefinizione del mercato del lavoro, sia ancora l’uomo la risorsa più importante e più ricercata. Secondo la ricerca, infatti, più datori di lavoro che mai – l’87% - dichiarano l’intenzione di aumentare o mantenere il proprio organico come risultato dell'automazione.

Le aziende che puntano sulla digital transformation rappresentano il motore di una crescita esponenziale che si traduce nella nascita di nuove e diverse tipologie di lavoro. Sempre secondo la ricerca, infatti, le imprese che hanno già abbracciato la conversione digitale (il 41%) e che stanno automatizzando le mansioni più operative, sono anche quelle che prevedono maggiori assunzioni nei prossimi anni (il 24%).

Dobbiamo diffidare, dunque, delle previsioni catastrofistiche che predicono la fine del lavoro. Basta guardare al Giappone, uno dei Paesi tecnologicamente più avanzati in cui la disoccupazione è solo al 2,5%.

Il punto non è l’esigenza di creare più posti di lavoro, quanto formare le persone che dovranno occuparli: quindi è fondamentale oggi più che mai concentrarsi su come sviluppare le skill del futuro.

Infatti, uno dei rischi principali nel viaggio delle imprese verso la digital transformation è che da sola, l’innovazione tecnologica non basta a far crescere la produttività. Lo rileva anche un recente report dell’Ocse dal titolo “Dividendo digitale: politiche per sfruttare il potenziale di produttività delle tecnologie digitali”, nel quale oltre alle ragioni esogene dovute a contesto globale, sistema economico-sociale e mercati, ce ne sono altre di natura endogena legate alla capacità dell’organizzazione stessa di individuare e far funzionare le leve della trasformazione digitale. Alcune di queste leve riguardano l’adozione tecnologica e la riorganizzazione dei processi, ma tra tutte spicca la capacità dell’azienda di mappare, aggiornare e sviluppare le competenze del capitale umano. Nel report si legge infatti: “Le competenze sono un fattore chiave per consentire la diffusione delle tecnologie digitali e massimizzarne l’efficacia e l’efficienza, e quindi l’impatto sulla produttività. E, per contro, la carenza di queste capacità, ad esempio di competenze tecniche manageriali o informatiche, tende a ridurre i benefici in termini di produttività derivanti dall’adozione del digitale”.

La robotizzazione, quindi, non si traduce in perdita di posti di lavoro, ma nella necessità di reskilling e upskilling, cioè rinnovare e adeguare le competenze di chi già lavora e di chi deve entrare nel mondo del lavoro con programmi di formazione importanti e mirati. Nel 2011 solo il 20% delle imprese investiva in upskilling, alla fine del 2018 eravamo già al 54% e, secondo la ricerca “Humans wanted”, l'84% delle aziende intervistate prevedeva di lavorare sull’upskilling per i propri dipendenti entro il 2020, cosa che si è puntualmente verificata.

Ma, in questo scenario complesso e in rapidissima evoluzione, le competenze tecniche che, come abbiamo visto, ognuno di noi è chiamato ad aggiornare non sono sufficienti. Capacità cognitive, creatività, adattabilità ed empatia sono competenze soft sempre più determinati per il successo e la crescita dei percorsi professionali. Infatti, sempre attingendo ai dati della nostra ricerca, sappiamo che, entro il 2030, la domanda di competenze umane - soft skill sociali ed emotive - crescerà in tutti i settori industriali del 26% negli Stati Uniti e del 22% in Europa.

Secondo Tomas Chamorro-Premuzic, psicologo, impegnato a ideare soluzioni innovative per riconoscere il talento avvalendosi di scienza e tecnologia, non possiamo né vogliamo fermare l’evoluzione tecnologica, ma dobbiamo sentire la responsabilità di individuare le migliori soluzioni per integrare il lavoro umano con quello delle macchine. Per questo diventa sempre più importante attrarre e scegliere i talenti in possesso delle competenze soft più adatte e che siano in grado di valorizzare al meglio il lavoro delle macchine. Occorre quindi utilizzare al meglio le tecniche di valutazione (assessment) per comprendere il potenziale umano e destinare le persone al ruolo per cui sono più adatte. Infatti, l’utilizzo di strumenti scientifici aumenta la probabilità di scegliere la persona giusta per il ruolo più adatto dal 50% a più dell’80%.

Oggi trovare le persone è molto facile, chiunque con un accesso Internet può trovare chiunque altro. Il valore aggiunto è dato dalla conoscenza delle persone. Stiamo vivendo un’epoca particolarmente interessante e stimolante da questo punto di vista. Infatti, la convergenza di scienza e tecnologia ci possono aiutare a conoscere veramente le persone e guidarle in un percorso di crescita personalizzato. È fondamentale per le organizzazioni avere una mappatura chiara delle competenze possedute dai propri collaboratori, quelle di cui avranno bisogno e come colmare questo divario per “costruire” talenti dall’interno.

Per rispondere a questa esigenza, una grossa mano viene oggi dalle piattaforme tecnologiche (Hr tech) oggi sempre più diffuse, che ne agevolano il lavoro e soprattutto consentono la raccolta e l’analisi dei dati per una gestione sempre più oggettiva e “scientifica” del capitale umano. Altro esempio, questo, di collaborazione tra uomo e macchina da una parte e di necessità di aggiornare le competenze anche dei profili HR delle aziende. dall’altra.

Anche ManpowerGroup ha investito in queste tecnologie e proprio in Italia ha recentemente lanciato Visi-skill, una piattaforma innovativa, basata sull'Intelligenza Artificiale, che combina l'analisi dei dati e la conoscenza delle persone e consente agli HR di sviluppare una banca di competenze basata sul cloud. Visi-Skill combina lo studio delle soft e hard skill delle persone, analizza i ruoli attuali e proietta l'evoluzione dei ruoli su un orizzonte temporale di 1-3 anni.

Quello dello skill gap sembra destinato ad essere un nodo cruciale nella discussione dei prossimi anni anche per i responsabili delle imprese che devono pensare alla crescita della produttività delle proprie aziende. Nel Global ceo survey di PwC, i leader intervistati hanno, infatti, dichiarato che la disponibilità o meno delle competenze chiave "influenza” la loro prospettiva di crescita. Inoltre, il 55% degli intervistati afferma che l’incapacità di innovare in modo efficace, seguita dai costi troppo alti del personale sono di ostacolo alla crescita stessa.

Il ruolo della leadership è dunque fondamentale per attuare una talent strategy efficace che favorisca la crescita delle realtà imprenditoriali. I nuovi leader digitali non solo devono adattarsi a gestire cicli delle competenze più brevi del passato, creando team agili, multifunzionali e multiskill, ma devono anche imparare a utilizzare sistemi di valutazione più scientifici che consentano una analisi e predittività della performance e guidare, quindi, con maggiore consapevolezza la crescita professionale e lo sviluppo delle competenze individuali delle proprie persone innescando un nuovo rapporto dirigente-dipendente.

Dovranno, inoltre, essere protagonisti nel promuovere una cultura di learnability, fornire un orientamento professionale e investire sulle persone. Oggi le aziende hanno una grande responsabilità nell’accompagnare e preparare le persone al futuro del lavoro digitale, accelerando il loro percorso di apprendimento e assecondando attitudini e capacità a favore di una carriera professionale gratificante.

Fondamentale, peraltro, è e sempre di più sarà il ruolo del lavoratore stesso, che dovrà investire continuativamente su stesso (percorsi di autoformazione) perché è la risorsa più importante che ha a disposizione. Dovrà sviluppare la propria learnability, ossia le proprie conoscenze e competenze, diventando consapevole che solo l’apprendimento continuo potrà garantire di restare rilevante nel mercato del lavoro – employable/impiegabile - in maniera duratura.

La learnability è dunque è la chiave della conoscenza nell’era digitale.

 

di Stefano Scabbio, già presidente e amministratore delegato di ManpowerGroup in Italia, è attualmente anche presidente dell’Area mediterranea, nord ed est Europa di ManpowerGroup.

venerdì 9 aprile 2021