Decidiamo oggi per un domani sostenibile

Interventi infrastrutturali e piattaforme tecnologiche di contrasto all’emergenza idrica

L’Italia non immagazzina abbastanza acqua piovana. Occorrono interventi infrastrutturali urgenti, sul versante dei bacini e delle perdite idriche. Importante attuare una mappatura capillare delle reti di distribuzione.

di Fulvio Ananasso, presidente Stati generali dell’innovazione

Il ciclo di gestione dell’acqua è la tipica declinazione del paradigma dell’economia circolare, alla base del nostro benessere, dello sviluppo economico e della sostenibilità ambientale. Al tema dell’acqua sono dedicati vari dei 17 Sustainable development goals (SDGs) dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile: i Goal 6 (“Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell'acqua e delle strutture igienico-sanitarie”) e 14 (“Conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile”), il correlato Goal 13 (“Adottare misure urgenti per combattere il cambiamento climatico e le sue conseguenze”) e – relativamente a bacini e reti di distribuzione – il goal 9 (“Infrastrutture, imprese e innovazione”).

La persistente e generale siccità degli ultimi otto anni ha portato all’attenzione di tutti la carenza di disponibilità della risorsa idrica causata dal cambiamento climatico. Pensiamo alla necessità di Roma Capitale di attingere dal lago di Bracciano nell’estate 2017, alle immagini dei ghiacciai che si ritirano costantemente, alle ridottissime nevicate sulle Alpi, allo sconsolato spettacolo del “grande” fiume Po ridotto a pietrisco in vari tratti e per decine di chilometri dalla foce (con acqua marina che risale nel letto e danni enormi all’irrigazione e fauna di acqua dolce), alla ormai endemica carenza di pioggia “utile” (spesso concentrata e intensa, causa di alluvioni e inondazioni più che di ricarica delle falde), ecc. Nel 2021 sono adottate misure di razionamento idrico in 15 Comuni capoluogo di Provincia / Città metropolitana (erano 11 nel 2020), due anche nel Centro-Nord. Se da un lato, quindi, deve essere garantito il diritto all’accesso all’acqua potabile, al contempo devono anche essere implementate condotte virtuose da parte di tutti gli utilizzatori della risorsa (civili, industriali, agricoli), riducendo l’impronta idrica derivante dalle azioni umane.

Oltre ai cambiamenti climatici, fattori (almeno in parte) antropici come l’inquinamento, dissesti idrogeologici, eventi atmosferici estremi accrescono la pressione su infrastrutture e sistemi idrici, fortemente sollecitati dai processi di urbanizzazione e dallo sviluppo economico che hanno avuto, negli anni, un impatto diretto sull’aumento della domanda di acqua. Occorre dunque rafforzare l’efficienza e resilienza del sistema idrico, rendendo i processi più efficienti ed efficaci, soprattutto nei territori che presentano una maggiore vulnerabilità a situazioni di criticità idrica.

Le politiche per la gestione efficiente, efficace e sostenibile dei servizi idrici rientrano tra gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che prevede risorse (purtroppo largamente insufficienti) pari a 900 milioni di euro entro il 2026 – in aggiunta a 480 milioni dal programma europeo React-Eu. Prerequisito è un monitoraggio continuo e capillare delle risorse attraverso informazioni costantemente aggiornate e con sempre maggior dettaglio territoriale. Da qui la necessità di costruire un sistema informativo di governance, pianificazione e valutazione in base alle esigenze dei vari stakeholder.

Fonti e necessità di acqua dolce

Le distese d’acqua che coprono la superficie terrestre includono una piccola frazione di acqua dolce (4% circa), costituita per il 68% da ghiacciai, 30% da acqua di falda e 0,3% da laghi d’acqua dolce – il resto diviso tra altre fonti idriche come permafrost, umidità nel suolo, fiumi e paludi.

L’Ocse stima che la domanda globale d’acqua crescerà entro il 2050 del 55% rispetto al 2000, con il 70% destinata all’agricoltura, il 20% all’industria e il 10% al consumo civile nel 2018. In Italia, nel 2018 il 54% dell’uso idrico era destinato all’agricoltura, il 21% all’uso industriale, il 20% all’uso civile e il 5% all’uso energetico. Con i nostri 33 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno per i vari usi, l’Oms ci considera un Paese a stress idrico medio-alto, poiché utilizza oltre un terzo delle sue risorse idriche rinnovabili (in crescita del 6% ogni 10 anni) e preleva acqua dolce per oltre il 75% del fabbisogno dalle acque sotterranee – a parte la Sardegna, attorno al 20%. Una tendenza che, unita a urbanizzazione, inquinamento ed effetti dei cambiamenti climatici, mette a dura prova l’approvvigionamento idrico nazionale.

Tra le diverse tipologie d’uso, assume particolare rilevanza il comparto relativo al potabile, viste le dirette conseguenze sul sistema socioeconomico, benessere e abitudini delle persone. Secondo dati Istat, il prelievo di acqua potabile sul territorio nazionale ha subìto una riduzione a partire dal 2015 (primo calo nei 20 anni precedenti), dai 9,4 miliardi di metri cubi a 8,1 miliardi nel 2020. Il consumo pro capite di acqua potabile si attesta intorno ai 215 litri al giorno (236 litri per abitante nei Comuni capoluogo di Provincia e di Città metropolitana, consumi più bassi nelle zone extraurbane), rispetto ai 220 litri del 2015. Seppure in calo, esso è sempre molto maggiore degli altri Paesi europei, la cui media giornaliera è di circa 125 litri / persona (dati Eurostat).

L’erogazione giornaliera dell’acqua pro capite presenta peraltro una forte variabilità regionale. È mediamente più elevata nei comuni settentrionali, con il massimo nel Nord-Ovest (in media 253 litri per abitante al giorno, dai 234 litri del Piemonte ai 438 della Valle d’Aosta, Regione con il valore più alto), anche a causa della diffusione dei fontanili, che soprattutto nelle aree montane possono dar luogo a erogazioni considerevoli. Nelle Isole è erogato in media il minore volume di acqua (186 litri per abitante al giorno), anche se i valori regionali più bassi si osservano in Umbria (166 litri) e Puglia (155 litri).

Dopo le temperature record del 2022, il 2023 non sembra invertire lo scenario di siccità, ma semmai peggiorarlo, in Italia e diversi Paesi europei, a causa del clima sempre più caldo. L’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) dell’Onu stima per ogni grado di aumento della temperatura terrestre una riduzione del 20% della disponibilità di risorse idriche. E lo scienziato Roberto Battiston osserva “Nell’epoca pre-industriale la quantità di CO2 era di 3 parti su 10 mila. Negli ultimi 150 anni è salita a 4 parti su 10 mila. Sembra poco, ma questo ha prodotto un aumento della temperatura media mondiale di circa un grado e mezzo”.

Mentre oltre due miliardi di persone nel mondo non hanno accesso a fonti idriche, l’Italia è in condizioni migliori rispetto ad altri Paesi europei, come ad esempio Austria, Francia e Germania. La disponibilità di acqua dolce è superiore a Grecia e Spagna, che pure ne consumano parecchia. Il nostro Paese non è quindi (ancora) povero di acqua, anche se, all’ottavo anno consecutivo di siccità, un recente studio Jrc rileva precipitazioni in netta diminuzione rispetto agli anni precedenti – in particolare sulle Alpi. Il deficit di precipitazioni è persistente, associato a temperature sopra la media che peggiorano l’evapotraspirazione (evaporazione da suolo, fiumi, laghi e bacini associata a traspirazione delle piante), particolarmente forte nella Pianura Padana. Il lago di Garda era circa 1,5 metri sopra il livello zero nel 2021, un metro nel 2022 e meno di mezzo metro nel solo inverno 2023, con serie preoccupazioni in vista delle stagioni più calde e secche. Come già detto, il fiume Po è molto al di sotto dei livelli dello stesso periodo del 2022 (-61% di precipitazioni), mentre la neve sulle Alpi (-53%) è ampiamente al di sotto dei valori medi del decennio 2011-2021, del tutto insufficiente a garantire le scorte fondamentali per rifornire di acqua fiumi e laghi nelle stagioni più calde.

Falde ed invasi e acquiferi

La grande siccità dell’estate 2022 ha evidenziato come l’Italia, pur essendo tra le più ricche d’acqua in Europa, sia anche una delle più vulnerabili quanto all’approvvigionamento in situazioni di carenza di precipitazioni di lungo periodo. In mancanza di sufficienti risorse idriche nelle falde acquifere, il sistema degli invasi idrici artificiali non è sufficiente a garantire acqua in condizioni di grave siccità, sia per carenza di investimenti / manutenzione degli impianti che per contrarietà di vari stakeholder.

Oggi la percentuale di acqua piovana immagazzinata nei nostri bacini (347 laghi, 526 grandi dighe e circa 20mila piccoli invasi) è stimata all’11,3%, contro circa il 15% di 50 anni fa, grosso modo a parità di precipitazioni. Sul nostro territorio piovono in media 302 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, più che (ad esempio) in Gran Bretagna – 800 millimetri di precipitazione annua in media su Roma, 718,8 millimetri nei 24 capoluoghi di Regione / Città metropolitana, 760 millimetri a Londra. Su due terzi del territorio (montagne e colline) piove più che altrove, e possiamo contare su 1.053 grandi falde montane e 7.494 corsi d’acqua (1.242 dei quali a carattere torrentizio). Nonostante ciò, stocchiamo sempre meno acqua piovana (nove miliardi di metri cubi in meno rispetto a cinquant’anni fa), sia a causa dei depositi di sedimenti (“sfangamenti”) che riducono – se non rimossi – la capienza effettiva degli invasi, sia per la carenza di nuove infrastrutture per tener conto dei cambiamenti climatici che hanno modificato le tempistiche stagionali delle piogge. Mancherebbero all’appello almeno duemila piccoli e medi invasi.

Ovviamente gli invasi artificiali per la raccolta di acqua piovana non potrebbero risolvere da soli i problemi di acqua potabile e/o irrigazione, ma ovvierebbero a varie situazioni emergenziali. Si pensi alla “laminazione delle piene” grazie alla modulazione dei rilasci delle dighe nei fiumi, onde evitare piene ed inondazioni in presenza di precipitazioni eccezionali e garantire il flusso negli ecosistemi fluviali nei periodi più siccitosi. O all’impiego come depositi d’acqua prelevabile da velivoli per contrastare incendi boschivi, alle centrali idroelettriche nelle dighe per generare energia da fonti rinnovabili, ecc.

Gli investimenti per tali infrastrutture idriche sono però pressoché fermi dagli anni ’60, e un primo set di interventi è previsto nel Pnrr per le opere idriche. Risulterebbero 223 progetti esecutivi di invasi medio-piccoli (sostanzialmente per l’irrigazione agricola) presentati dall’Associazione nazionale dei consorzi di bonifica (Anbi) e Coldiretti, all’interno di un piano complessivo che punterebbe a realizzare 10mila impianti di questo tipo entro il 2030 in zone collinari e di pianura.

Riduzione/ottimizzazione dei fabbisogni

Tuttavia, i bacini idrici antisiccità incontrano non poche voci critiche, come ad es. agricoltori e ambientalisti, anche considerando la provenienza delle risorse idriche per alimentarli. Mentre quelli posti in collina raccolgono le piogge dal terreno, dighe o deviazioni parziali fluviali, gli altri impianti vengono spesso riempiti (anche) attingendo dalle acque sotterranee (e/o dai fiumi), con pompaggi ininterrotti per tutto l’inverno. I mega-bacini potrebbero quindi costituire una risposta solo sul breve termine, ma tutto il sistema di approvvigionamento, consumo e condivisione dell'acqua andrebbe rivisto. Come evidenziato nel rapporto Fao 2021, le pratiche e le colture agricole necessitano di una profonda ed urgente trasformazione per diventare più resilienti e rispondere in modo rapido e sostenibile alle sfide dei cambiamenti climatici e scossoni geopolitici – ad esempio la guerra in Ucraina.

Il Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf) afferma che “la costruzione di nuovi invasi non può essere la soluzione alla crisi idrica, il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda”. La grave siccità andrebbe affrontata nelle cause e non nei sintomi, non realizzando ulteriori bacini artificiali senza rivedere sperperi del modello agricolo intensivo. L’analisi del Cirf parte dal fatto che la grave crisi idrica in corso è da inquadrare nel cambiamento climatico, e va messo in discussione come viene utilizzata la risorsa (limitata) acqua, di cui l’agricoltura è la maggiore utilizzatrice – 54% dei consumi totali secondo l’Associazione nazionale bonifiche in Italia (Anbi). Pertanto, più dei danni causati all’agricoltura dalla siccità, occorrerebbe considerare la “sostenibilità” della produzione di cibo, che spesso consuma troppa risorsa idrica – a parte altre considerazioni socio-ambientali. Occorrerebbe ripensare alle produzioni agricole meritevoli di essere incentivate o disincentivate, privilegiando ad esempio le colture meno idro-esigenti all’interno del recentissimo Psp, ovvero il Piano strategico della Pac (Politica agricola comune).

E c’è poi la questione della desertificazione e perdita di biodiversità dei suoli. Il 70% dei suoli dell’Ue sono degradati, e Ispra stima che il 28% del territorio italiano non presenta solo carenza d’acqua, ma soprattutto di sostanze chimiche organiche che ne contrastino la desertificazione con la capacità di trattenere acqua e nutrienti. Occorrerebbe quindi agire a monte, adottando prioritariamente, rispetto a (solo) nuovi bacini, misure mirate alla prevenzione del degrado dei suoli, all’incremento della funzionalità ecologica dei territori e della loro capacità di trattenere e far infiltrare le acque meteoriche.

La riduzione dei fabbisogni dovrebbe quindi rappresentare la prima priorità, e poi considerare eventualmente nuovi bacini artificiali. Anche considerando che, mentre piccoli invasi collinari volti alla raccolta dei deflussi superficiali potrebbero essere di aiuto, nuove dighe avrebbero comunque un forte impatto sui sistemi idrografici, rappresentando un rilevante fattore di pressione sull’equilibrio idro-geologico dei territori. Esse comportano sedimenti, incisioni degli alvei, “erosione costiera”, fattori primari di depauperamento delle falde freatiche e di intrusione del cuneo salino, cioè proprio i problemi imputati alla siccità, da combattere con nuove dighe (parziali cause degli stessi problemi)?

Inoltre, gli invasi perdono molto per “evapotraspirazione”, oltre 10mila metri cubi all’anno per ettaro di superficie idrica che passano nell'aria per effetto congiunto dell’evaporazione e della traspirazione della vegetazione, in misura maggiore al Sud in proporzione all’aumento delle temperature medie. E soprattutto negli invasi di minori dimensioni (ad esempio collinari), dove l’acqua può raggiungere temperature elevate, con “formazioni di condizioni anossiche, fioriture algali e sviluppo di ciano tossine […] che compromettono il successivo utilizzo di queste acque”.

Di qui l’asserita convenienza di stoccare l’acqua nelle falde, i cui sistemi di ricarica controllata costerebbero e consumerebbero molto meno territorio (sarebbe quindi più agevole trovare siti idonei) rispetto agli invasi. Si parla di 1,5 euro per metro cubo di infiltrazione annua, mentre per gli invasi i costi ammontano a cinque-sei euro per metro cubo di volume invasabile. Secondo questa visione, occorrerebbe quindi concentrarsi (piuttosto che su nuovi bacini) sulla ripulitura e manutenzione dei bacini e dighe esistenti, sulla riqualificazione morfologica ed ecologica dei corsi d’acqua (de-canalizzandoli e recuperando le forti incisioni subite nei decenni scorsi), riconnettendo le pianure alluvionali, ripristinando fitte formazioni boschive nei territori, facendo sì che le precipitazioni, anche le più intense e concentrate, permangano più a lungo sul territorio invece di scorrere velocemente a valle e provocare più danni che vantaggi / stoccaggi. E inoltre depurando le acque reflue (296 Comuni non possiedono il relativo servizio pubblico) e desalinizzando quelle marine, con i moderni sistemi tecnologici (e.g. osmosi inversa) di eliminazione di arsenico. salamoia e altri scarichi residui – con ottime efficienze energetiche, attualmente di circa quattro kilowatt richiesti per metro cubo di acqua prodotta. Ad oggi, solo lo 0,1% dell’acqua potabile è ottenuta dalla desalinizzazione, e ad esempio nelle piccole isole si usano ancora le navi cisterna per il trasporto di acqua potabile. E ancora, occorrerebbe de-impermeabilizzare porzioni di aree urbane (de-sealing) e l’adozione generalizzata di pratiche colturali che aumentino il contenuto di sostanza organica nei suoli e la loro capacità di assorbire le piogge e trattenere umidità e nutrienti. Un incremento dell’1% di sostanza organica può garantire fino a 300 metri cubi in più per ettaro di accumulo idrico nel suolo.

Infrastrutture idriche e perdite di rete

Mentre si stimano (fisiologiche) dispersioni di acqua del 10-15% per le pratiche irrigue, e minime percentuali di dispersione per gli altri usi, la dispersione è molto più accentuata nel settore civile, in particolare nelle reti di distribuzione degli acquedotti.

Per la Giornata mondiale dell’acqua (Gma), istituita nel 1992 dall’Onu per il 22 marzo di ogni anno, l’Istat pubblica un focus tematico con risultati provenienti da varie indagini, elaborazioni ed analisi, per una lettura integrata delle statistiche sulle acque in relazione al territorio e alla popolazione. Il rapporto Istat Gma 2023 (riferito al quinquennio 2018-2022) ha evidenziato come obsolescenza degli impianti, cambiamenti climatici e aumento della siccità impattino negativamente nella gestione ottimale dell’acqua. Il rapporto identifica in circa 9,2 miliardi di metri cubi il volume di acqua potabile prelevato nel 2020 per impieghi domestici, pubblici, commerciali, artigianali, industriali e agricoli, di cui 2,8 miliardi di metri cubi (30,5%) dal solo distretto idrografico del fiume Po. Di questi 9,2 miliardi di metri cubi, circa 8,1 miliardi sono stati immessi in rete di distribuzione (i restanti 1,1 miliardi di metri cubi prelevati in altro modo), di cui viene disperso mediamente il 42,2% – inclusi gli allacciamenti abusivi e gli errori di misurazione.

Quello delle perdite della nostra rete idrica è uno dei tasti più dolenti – per le quali incidentalmente abbiamo in atto una procedura di infrazione Ue con 60 milioni di euro all’anno di multa, con un danno aggiuntivo a carico in fin dei conti degli utilizzatori finali. Degli 8,1 miliardi di metri cubi immessi in rete nel 2020, solo 4,7 hanno effettivamente raggiunto i consumatori finali, il che equivale a una perdita annua nel transito di 3,4 miliardi di metri cubi, cioè 157 litri al giorno per abitante. Se prendiamo come riferimento il valore pro capite indicato sopra di 215 litri, le perdite potrebbero soddisfare le esigenze idriche di 43 milioni di persone in un anno!

Le perdite non sono peraltro distribuite in modo omogeneo sul territorio. Il Nord-Ovest della Penisola ha valori piuttosto contenuti (la Valle d'Aosta ha “solo” il 22% di perdite), mentre il Centro-Sud e Isole – in particolare, Umbria, Abruzzo, Lazio, Sardegna e Sicilia – sono ai primi posti in termini di perdite idriche con valori superiori al 50%. A livello locale, la provincia di Frosinone fa registrare i valori più alti (con perdite in calo, ma non lontane dall’80%), mentre la provincia più virtuosa risulta Milano, con perdite medie pari al 18,7% circa.

Quali sono le ragioni di queste rilevanti perdite? Come riportato dal Fai e Utilitalia, gli acquedotti in Italia si sviluppano per 425mila chilometri di rete, 500mila chilometri inclusi gli allacciamenti. Il 60% della rete nazionale ha oltre 30 anni di età, e il 25% supera i 50 anni. Il tasso nazionale di rinnovo è pari a 3,8 metri di condotte per ogni chilometro di rete: a questo ritmo occorrerebbero oltre 250 anni per sostituire l’intera rete! Utilitalia stimava nel 2018 in cinque miliardi di euro all’anno l’investimento per adeguare e mantenere la rete idrica nazionale. Gli investimenti si attestano invece a 32-34 euro / anno per abitante, mentre la media europea è di circa cento euro (in Danimarca si arriva a 129 euro).

Nonostante la consistente dispersione del 42,2% d’acqua nelle reti, le prospettive di riduzione delle perdite idriche risultano comunque alla portata, grazie anche all’impulso positivo della regolamentazione. Secondo la Fondazione Utilitatis “Negli ultimi anni, il comparto idrico si è messo in moto nella giusta direzione, dopo decenni di investimenti insufficienti. Ciò è stato possibile con la presenza di operatori industriali che si occupano dell’intero ciclo idrico integrato, strada obbligata per colmare il gap infrastrutturale del Paese e tra le diverse aree d’Italia”.

Pnrr e ammodernamento delle reti di distribuzione

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede il finanziamento di politiche per la gestione efficiente, efficace e sostenibile dei servizi idrici. In tale contesto, è stato lanciato come detto un programma da 900 milioni di euro entro il 2026 destinato all’ammodernamento della rete idrica (potabile) nazionale.

I 900 milioni di euro riguardano 33 interventi volti a ridurre le perdite di acqua potabile nella rete degli acquedotti, di cui 19 nel Centro-Nord (536 milioni di euro) e 14 nel Sud (364 milioni di euro). Entro il 2024 circa 45.500 chilometri di condotte ad uso potabile dovranno essere attrezzate con strumentazioni e sistemi di controllo innovativi per la localizzazione e la riduzione delle perdite, favorendo una gestione ottimale della risorsa idrica, riducendo gli sprechi e le inefficienze, e migliorando allo stesso tempo la qualità del servizio erogato ai cittadini. Entro marzo 2026, tali interventi dovrebbero essere estesi a circa 72mila chilometri di condotte.

Nell’ambito di tale programma di interventi Pnrr, lo scorso 17 gennaio il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti (Mit) ha assegnato la seconda tranche da 293 milioni di euro per progetti di riduzione delle perdite nelle reti di distribuzione idrica, inclusi interventi di digitalizzazione e di monitoraggio delle infrastrutture. 

Purtroppo, le risorse allocate al momento tra Pnrr e altri interventi di ammodernamento delle strutture e riduzione delle perdite di acqua potabile sono largamente insufficienti. Ai 900 milioni di euro citati entro il 2026 per la riduzione delle perdite idriche, si aggiungono al momento solo i 480 milioni finanziati dal programma europeo React-Eu. Si pensi che l’Ocse stimava nel lontano 2013 almeno 2,2 miliardi di euro all’anno per i prossimi 30 anni necessari per metterci al passo con il livello di manutenzione e prestazioni delle reti del resto d’Europa.

Piano di azione

Fiumi e laghi italiani sono in grande sofferenza, in uno stato di severità idrica “media” in tre dei sette distretti idrografici e un’emergenza siccità mai rientrata, ma purtroppo in peggioramento. Come già notato, si registra quest’anno il 53% in meno di neve sull’arco alpino, e un deficit del 61% nel bacino del Po. Nei prossimi mesi, la domanda di acqua per uso agricolo si aggiungerà agli attuali usi civili e industriali già in sofferenza e il fabbisogno idrico nazionale potrebbe risultare insostenibile rispetto alle disponibilità. Legambiente ha recentemente indicato al riguardo otto priorità da introdurre in una (non più rinviabile) strategia nazionale idrica, con un approccio circolare di interventi a breve, medio e lungo periodo, che favoriscano sia l’adattamento ai cambiamenti climatici che la riduzione dei prelievi di acqua, evitandone gli sprechi.

  1. Favorire la ricarica controllata della falda acquifera, facendo in modo che le precipitazioni sempre più intense e concentrate permangano più a lungo sul territorio invece di scorrere velocemente a valle fino al mare.
  2. Introdurre l’obbligo di recupero delle acque piovane, con l’installazione di sistemi di risparmio idrico e il recupero della permeabilità e attraverso misure di de-sealing in ambiente urbano (porzioni di territorio da liberare dall’asfalto / cemento e riportare in condizioni idonee per far crescere erba, alberi e arbusti) e prevedendo laghetti e piccoli bacini per l’irrigazione agricola. 
  3. Interventi strutturali per rendere efficiente il funzionamento del Ciclo Idrico Integrato, onde permettere le riduzioni delle perdite di rete, e completare gli interventi sulla depurazione.
  4. Modifiche normative per il riuso delle acque reflue depurate in agricoltura. 
  5. Riconvertire il comparto agricolo verso colture meno idro-esigenti e metodi irrigui più efficienti.
  6. Utilizzare i Criteri Minimi Ambientali nel campo dell’edilizia per ridurre gli sprechi. 
  7. Favorire il riutilizzo dell’acqua nei cicli industriali anche per ridurre gli scarichi inquinanti. 
  8. Introdurre misure di incentivazione e defiscalizzazione in tema idrico, come avviene per gli interventi di efficientamento energetico, per tutti gli usi e per tutti i settori coinvolti.

Una volta presa coscienza che la carenza di risorse idriche rischia di diventare a breve una vera emergenza nazionale, in grado di mettere a rischio pace sociale e sviluppo socioeconomico delle nostre comunità, è necessario pianificare un action plan di interventi estremamente urgenti e radicali – “trasformativi” piuttosto che (solo) evolutivi -, che in tre-cinque anni al massimo pongano un freno agli effetti della possibile emergenza idrica e contribuiscano a disinnescare la potenziale “bomba sociale” potenzialmente collegata.

Una prima azione dovrebbe riguardare la mappatura capillare, aggiornata e precisa delle reti di distribuzione sul territorio e relative prestazioni, manutenzioni e quant’altro. Come dichiarato dall’ex ministro Luigi Di Maio nell’esporre le proprie linee programmatiche in materia di telecomunicazioni “La mappatura delle reti esistenti (vedi dopo Sinfi, nds) è cruciale per una corretta pianificazione degli interventi, per favorire la condivisione delle infrastrutture già esistenti e, in termini generali, per la valorizzazione delle informazioni disponibili”.

Operazione peraltro non banale, in quanto occorre poter raccogliere i dati detenuti da tutti gli Enti proprietari e/o gestori di servizi pubblici e privati che possiedono o costruiscono le infrastrutture idriche -- non pochi, di dimensioni molto diverse e parcellizzati sul territorio nazionale. Nella progressiva diminuzione in atto dal 1994, anno della riforma che ha avviato il Servizio idrico integrato (i gestori erano 7.826 nel 1999), nel 2020 operavano in Italia 2.391 gestori di servizi idrici – 161 in meno rispetto al 2018, a seguito delle trasformazioni gestionali che hanno interessato alcuni territori, tra cui le province di Como, Rieti e Varese. La gestione è però ancora fortemente frammentata a livello regionale / locale. La gestione specializzata del servizio di distribuzione copre interamente l’Umbria ed è molto presente in Basilicata, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Veneto. Le gestioni sono invece sostanzialmente parcellizzate (“in economia”), per l’incompleta attuazione della riforma, soprattutto in Calabria, Campania, Molise, Sicilia, Valle d’Aosta e nelle Province autonome di Bolzano e Trento.

Il Sistema informativo nazionale federato delle infrastrutture (Sinfi) già include in (gran) parte la rete idrica (distribuzione e smaltimento), e il suo completamento rappresenterebbe il fulcro centrale per una efficace strategia di monitoraggio, valutazione, problem solving e decision making di contrasto ai problemi indotti dalla siccità. Un registro informatizzato geo-referenziato delle infrastrutture idriche, basato su software GIS (geographic information system), che ne individui età, parametri strutturali, stato di “salute”, storico degli interventi manutentivi, organizzato per classi di rischi potenziali e relative priorità degli interventi – ad esempio blockchain-powered. Occorre però distinguere tra grandi e piccoli Operatori. La legge prevede che tutti essi alimentino il Sinfi, ma caricando i dati sulle infrastrutture, non sulle perdite. I grandi operatori sono dotati di sistemi Scada (supervisory control and data acquisition) per conoscere automaticamente e in tempo reale posizione ed entità delle perdite, mentre per i piccoli consorzi la cosa è molto più complicata. Il Sinfi potrebbe essere comunque utilizzato come “cruscotto” informativo, purché sia completato e disponibile a tutti gli stakeholder, sulla base dell’assunto che l’acqua è un “bene pubblico” di interesse strategico, da salvaguardare nell’interesse generale.

Occorre quindi che il legislatore e/o il regolatore Arera attuino norme-quadro vincolanti per equiparare il monitoraggio e la prevenzione di carenze infrastrutturali agli obblighi per la sicurezza delle infrastrutture critiche previsti dalla normativa vigente. Il regolatore deve disporre di strumenti concreti per poter agire sugli operatori del settore mediante norme precise ed incisive relativamente a incentivi e sanzioni sulla base del raggiungimento o meno degli obiettivi stabiliti – “nullum crimen sine poena, nulla poena sine lege”. Gli operatori devono, a loro volta, poter disporre di key performance indicators (Kpi), che da un lato li rassicurino su obiettivi di sviluppo quali-quantitativi chiari e ben definiti (sin dai bandi di gara per l’ottenimento delle licenze di fornitura di servizio), dall’altro pongano requisiti di scadenze, prestazioni, qualità dei processi operativi, misurabili che consentano loro di continuare ad esercitare i diritti di resa del servizio.

Tali operatori sono spesso piccoli consorzi o aziende municipalizzate, che devono dimostrare di essere alla pari di società concorrenti nel settore privato, combattendo burocrazia, pressapochismi, sottovalutazioni e scardinando la consuetudine di piccoli miglioramenti incrementali, consci della gravità della situazione che potrebbe portare ad una serissima emergenza nazionale. Il regolatore deve vigilare affinché essi realizzino un efficientamento dei processi / recupero di produttività relativamente al monitoraggio e messa in sicurezza della rete di distribuzione, anche attraverso KPI relativi alle prestazioni delle reti di distribuzione in termini del rapporto da migliorare tra acque giunte a destinazione rispetto a quelle immesse in rete.

Ove sia arduo l’efficientamento dei processi interni oltre un certo livello, i Kpi consentirebbero / obbligherebbero a ricorrere a terziarizzare in outsourcing la gestione del monitoraggio e controllo della rete, ad esempio mediante l’utilizzo di piattaforme tecnologiche – e.g. Scada e specifici sottosistemi applicativi – capaci di monitorare e analizzare i dati rilevati, e di prescrivere una manutenzione “mirata” (predittiva) di segmenti o sottosistemi di rete, da sostituire ove gli interventi manutentivi non siano sostenibili dal punto di vista costi-benefici – vedi prossima sezione.

Trasformazione digitale del settore idrico

Il settore idrico è in continua evoluzione per migliorare la salvaguardia della risorsa idrica e garantirne il riuso grazie anche al ricorso alle nuove tecnologie. Si pensi alle tecniche ingegneristiche più evolute per la gestione delle reti e degli impianti, all’utilizzo delle Information & communication technologies (Ict), fino alle simulazioni sui “gemelli digitali” (digital twin) e robotica avanzata.

La digitalizzazione e l’innovazione nel settore, attraverso l’interconnessione e gestione coordinata delle diverse componenti del processo produttivo, ne favorirebbe l’ottimizzazione. Sensori IoT (internet of things) nelle infrastrutture di rete sono in grado di razionalizzarne la manutenzione, la regolazione dei flussi, il risparmio di fabbisogno energetico e la riduzione dell’inquinamento. E anche di calibrare gli standard di prestazione e fornitura ai singoli utenti in base alle specifiche necessità nell’arco della giornata, grazie all’accresciuta flessibilità del processo produttivo. E così via.

Ad esempio, la Sardegna adotta contatori d'acqua intelligenti per favorire l'uso sostenibile dell'acqua. Abbanoa, il principale distributore idrico dell'isola, sta installando contatori idrici a ultrasuoni per ridurre gli sprechi e favorire un uso più responsabile e sostenibile dell'acqua, utilizzando i dati dettagliati rilevati continuamente per gestire meglio l'uso e l'erogazione dell'acqua in Sardegna. Grazie ai contatori intelligenti – letture da remoto, allarmi, ecc. – l'azienda può individuare rapidamente le perdite nella rete idrica e bloccare o ridurre l’erogazione in attesa dell’intervento di manutenzione e ripristino. In tal modo, essa può conoscere in tempo reale lo stato di salute della propria rete idrica, riducendo le perdite e migliorandone l’efficienza, anche mediante la gestione personalizzata dell’erogazione idrica a livello di singolo utente.

Nella prevenzione delle perdite idriche e nel conseguimento della sostenibilità, le tecnologie offrono pertanto una enorme e valida opportunità per riconoscere in tempo utile i segnali di un’imminente crisi, per descriverne l’evoluzione e implementare gli opportuni interventi. I citati sistemi Scada (e specifici sottosistemi applicativi) attuano il monitoraggio e rilevamento (automatico) dei principali parametri ambientali, fisici, chimici, meccanici, delle infrastrutture. Piattaforme tecnologiche Ict (IoT, data management / analytics, blockchain, …) consentono di monitorare e stimare con continuità lo stato di salute delle strutture e simularne (analogamente ai digital twin) i comportamenti futuri e i tempi di possibili défaillance più o meno serie, permettendo di prendere in tempo utile le opportune contromisure con una manutenzione mirata – o una sostituzione e ripristino delle infrastrutture obsolete, non riparabili secondo analisi costi-benefici. L’ampia disponibilità di dati rilevati dai sensori IoT rende possibile realizzare una manutenzione predittiva (“su condizione”), applicando algoritmi di intelligenza artificiale ai parametri misurati automaticamente nelle strutture, per derivarne stime sui possibili comportamenti e prescrizioni sulle misure da adottare prima che si verifichino rotture, guasti o fuori servizi vari.

Conclusioni – Riepilogo azioni suggerite

Il comparto idrico, parte integrante della transizione ecologica, è oggi in forte sofferenza e rappresenta anche un serio problema economico. Crisi climatica e siccità prolungata comportano carenze di disponibilità di acqua per usi civili, agricoli e industriali, oltre a perdite di biodiversità, di equilibrio degli ecosistemi naturali, nelle colture agrarie e negli allevamenti zootecnici. Le scarse precipitazioni unite alla fusione anticipata delle (poche) nevi condizioneranno pesantemente le capacità dei bacini idrografici nei mesi più caldi. Sono pertanto necessarie maggiori risorse per il settore idrico, a partire da un reindirizzamento e potenziamento del Pnrr.

Occorre quindi prendere coscienza che la carenza di risorse idriche rischia di diventare a breve una vera emergenza nazionale, ancorché sia stata talvolta o spesso sottostimata e non considerata una vera priorità. Al contrario, i recenti avvenimenti di assottigliamento se non annullamento delle riserve idriche, peggiorati dalla persistente e generale siccità degli ultimi anni (destinata a durare ed accentuarsi anche nel breve-medio termine, secondo le previsioni degli esperti), devono portare all’attenzione dei decisori Istituzionali l’urgenza di mettere la questione al centro dell’agenda delle decisioni radicali trasformative non più rinviabili – o affrontabili con interventi locali di rabberciamento e improbabile recupero di situazioni in disfacimento.

Sottolineiamo ancora le nevicate sulle Alpi in continua riduzione, il fiume Po ridotto a pietrisco per decine di km dalla foce e acqua marina che risale nel suo letto, l’endemica scarsità di piogge “utili”, che dovrebbero convincere tutti gli stakeholder, dai decisori politici finanche ai negazionisti del cambiamento climatico, che il problema socioeconomico della sempre più seria carenza di acqua rappresenta un elemento di criticità per la stessa convivenza civile - una potenziale “bomba sociale” -, la cui soluzione non può ulteriormente essere procrastinata.

In sintesi, un action plan a tre-cinque anni (al massimo) da attuare senza indugio, sotto la supervisione del Commissario straordinario di cui si sta parlando a livello governativo, richiederebbe:

  1. mappatura capillare delle infrastrutture idriche – completamento/adeguamento del Sinfi, inserendo nel registro informatizzato georeferenziato tutti i dati (incluse le perdite di rete) relativi a età, parametri strutturali, stato di “salute”, storico degli interventi manutentivi, con l’aiuto ad esempio di tecnologie blockchain;
  2. norme-quadro vincolanti con obiettivi, incentivi e sanzioni che equiparino il monitoraggio/prevenzione di carenze infrastrutturali agli obblighi di sicurezza delle infrastrutture critiche;
  3. Key performance indicators (Kpi) relativi alle prestazioni delle reti di distribuzione in termini di perdite in rete – ad esempio da ridurre (in tre-cinque anni) del 5-10% all’anno;
  4. efficientamento dei processi organizzativi degli operatori (utilities e società private o municipalizzate) per adeguarsi ai requisiti dei Kpi;
  5. eventuale terziarizzare in outsourcing della gestione/monitoraggio e controllo della rete;
  6. piattaforme tecnologiche (Scada e specifici sottosistemi applicativi) di monitoraggio, analisi ed elaborazione dati (Ai), problem solving & decision support systems (Dss), con contestuale installazione (ove non ancora esistente) di adeguata sensoristica internet of things (IoT).

È il caso di ribadire ancora come occorra agire senza indugio con decisi interventi trasformativi e non (solo) limitati miglioramenti evolutivi, mitigando il rischio di una gravissima emergenza idrica dai potenziali rischi socioeconomici estremamente seri e drammatici.

Occorre conoscere per poter deliberare”, Luigi Einaudi.

*L'autore è anche consigliere del Club dirigenti Tecnologie dell'informazione (Cdti) e membro dei Gruppi di lavoro ASviS per i Goal 8, 9, 10, 11 e 17

venerdì 31 marzo 2023