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Anche in Italia il cambiamento climatico aggraverà il problema delle risorse idriche

Tra rischi di siccità e fiumi che esondano, c’è molta incertezza sulla disponibilità di acqua potabile in futuro. Ma finora quella che abbiamo è stata abbondantemente sprecata e non c’è chiarezza neppure sulla gestione. 

di Andrea De Tommasi 

Un bene dal valore inestimabile, visto che non c’è nulla che possa sostituirlo. Ma anche un elemento che sulla Terra troppo spesso viene dato per scontato. Oggi circa 2,2 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, secondo le Nazioni unite. Eppure la sfida di una gestione sostenibile dell’acqua non sembra essere in cima all’agenda globale, sebbene la disponibilità e la qualità della risorsa idrica stia cambiando rapidamente per effetto dei cambiamenti climatici.

Le mutazioni nei tempi e nel luogo delle precipitazioni, combinati con l’aumento dei livelli di inquinamento delle acque, metteranno a dura prova gli ecosistemi. In molte regioni del mondo precipitazioni stanno diventando più variabili e più incerte, portando a inondazioni e siccità più frequenti e più intense. Anche in Italia, dove con un amento della temperatura fino a 2°C nel periodo 2021-2050, si registrerà una diminuzione delle precipitazioni estive del Centro e del Sud e un incremento di eventi legati a precipitazioni intense al Nord. Quali saranno le conseguenze sulla risorsa idrica? I dati pubblicati nel 2020 dalla Fondazione Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) aiutano a fare chiarezza. Per le aree urbane, ad eccezioni di alcune zone del Veneto e della Toscana e delle zone alpine, la riduzione delle precipitazioni determinerà situazioni di siccità e scarsità idrica più frequenti. “L’Italia meridionale subirà in modo particolare una riduzione delle prestazioni dei bacini idrici. Si è visto come la maggior causa dell’insufficienza dei sistemi in Sud Italia sia legata alla riduzione delle precipitazioni disponibili piuttosto che alla capacità del serbatoio, problema principale invece per i sistemi analizzati in Centro Italia”, si legge nel Rapporto. In un recente intervento al Green&Blue summit, Paola Mercogliano, ricercatrice della Fondazione Cmcc, ha mostrato come l’impatto del clima cambierà la vita delle città italiane: Napoli, Bologna, Milano e Roma fanno registrare un trend di crescita del numero di giorni molto caldi. In alcune zone d’Italia, è in corso un aumento dei massimi di precipitazione, nel periodo da novembre a marzo. Le città che non adottano misure per salvaguardare la propria fornitura d’acqua potrebbero avere importanti ripercussioni.

In questo contesto, i principali fattori di vulnerabilità che deve affrontare l’Italia sono almeno quattro. Innanzitutto, la cronica emergenza in tema di depurazione: la violazione della direttiva europea sulle acque reflue urbane è, infatti, oggetto di ben quattro infrazioni attualmente a carico dell’Italia a partire dalla prima del 2017. Il secondo aspetto riguarda lo stato delle nostre infrastrutture idriche, che sono sempre più obsolete, sicché il 47,6% dell’acqua potabile viene dispersa (il 42% solo nelle reti di distribuzione). Analizzando le differenze territoriali Nord-Sud si ottiene la fotografia di un Paese spaccato a metà: rileva l’Istat che il 96% circa della popolazione residente nelle Isole abita in province con perdite pari ad almeno il 45%, rispetto al 4% del Nord-Ovest. Un dato che trova conferma nel grado di soddisfazione espresso dagli utenti finali: nove famiglie su dieci si dichiarano complessivamente soddisfatte del servizio idrico, ma il dato cala drasticamente in Calabria (30,4%), Sardegna (24%), Sicilia (17,5%) e Abruzzo (16,5%).  Il terzo elemento riguarda gli investimenti nel settore idrico: siamo agli ultimi posti in Europa davanti solo a Malta e Romania. Secondo il Libro bianco 2021 di The European House Ambrosetti, investiamo 40 euro per abitante all’anno (rispetto a una media europea di 100 euro). Rispetto agli investimenti, è utile ricordare che la maggior parte degli acquedotti sono stati realizzati con fondi pubblici dal secondo governo Giolitti. Infine, vi è l’aggravante degli sprechi: siamo il secondo Paese dell’Unione europea per prelievi di acqua ad uso potabile, con 153 metri cubi annui (il doppio della media europea, quasi tre volte la Germania) ed un consumo pro capite giornaliero pari a 240 lt/gg. A questo consumo si aggiunge quello dei 200 litri pro capite all’anno per consumi di acqua minerale in bottiglia, in prevalenza di plastica. Siamo primi al mondo. Non sono dati confortanti, come conferma anche l’ultimo rapporto ASviS: dal 2010 al 2018, l’Italia ha mostrato, in relazione al Goal 6 (Acqua pulita e servizi igienico sanitari) dell’Agenda 2030, un andamento complessivamente negativo, dovuto sia al peggioramento dell’indice di sfruttamento idrico (che rapporta i prelievi idrici per tutti gli usi rispetto alle risorse idriche disponibili) sia alla diminuzione dell’efficienza delle reti idriche che al permanere di  un bassa fiducia dei cittadini rispetto alla sicurezza dell’acqua di rete, 

Diritto umano fondamentale

A dieci anni dal referendum (inapplicato) dove gli italiani presero posizione contro la privatizzazione, poco è cambiato nella gestione dell’acqua anche perché il Parlamento non ha mai approvato nessuna delle otto proposte di legge depositate. Le reti idriche sono di proprietà dello Stato e la loro vendita è vietata; la gestione può essere però affidata a soggetti privati.

In Italia il servizio è affidato in alcuni casi a società miste per azioni (pubblico-privato), mentre governo e Parlamento hanno assegnato la funzione di vigilanza del servizio ad Arera, una Autorithy a tutela delle regole del mercato e della concorrenza dei servizi industriali a rete.

Un rilievo critico alle proposte contenute nel Rapporto dell’ASviS in merito al richiamo del referendum è stato mosso dagli economisti Donato Berardi, Antonio Massarutto e Samir Traini, in un articolo apparso il 20 ottobre su lavoce.info. Ecco alcuni passaggi: “Anche ASviS (…) cade nella trappola di ricollegare quanto non funziona alla mancata attuazione della volontà popolare scaturita dal referendum 2011, auspicando un intervento legislativo. (…) Omette però di dire che il principale responsabile delle perdite e dei disagi è proprio il ritardo nell’adozione di un modello di gestione industriale, da cui consegue la mancata realizzazione delle reti fognarie e dei depuratori, l’assenza di manutenzione e il degrado di quelle esistenti”.

Come argomenta in merito Luigi Di Marco, referente del Gruppo di lavoro 6 dell’ASviS “nel rapporto ASviS 2021, l’adozione di piani industriali per l’acqua fanno parte delle raccomandazioni (cfr.pag.202), come già ancora veniva riportato nel primo rapporto del 2016. Il referendum è espressione di una volontà democratica. La vera trappola è bloccarsi sullo scontro ideologico o limitarsi ad assumere posizioni di difesa d’interessi di parte, anziché costruire le convergenze sociali necessarie verso un quadro normativo esaustivo e stabile sull'acqua che sappia perseguire al meglio gli obiettivi dell'agenda 2030, in tutta la sua complessità”.

Di diverso avviso rispetto ai contenuti del Rapporto ASviS sul referendum è Utilitalia, federazione che aderisce all’ASviS e rappresenta la gran parte dei gestori idrici italiani. “L’acqua è pubblica e lo sarà sempre, perché fa parte del patrimonio indisponibile dello Stato che – attraverso concessioni – ne affida la gestione a soggetti pubblici, privati o misti”, ha scritto Utilitalia in una nota del 4 ottobre, replicando alle osservazioni del Rapporto ASviS. “Per quanto riguarda la sua gestione, il referendum del 2011 non ha mai indicato la via della ripubblicizzazione forzata, ma ha reso l’Italia uguale agli Stati membri dell’Ue”. Utilitalia ha concluso ricordando che negli ultimi anni si è registrato un cambio di passo a livello di sensibilità politica sulla governance dell’acqua, “un’indirizzo che si trova, fortunatamente, anche all’interno del Pnrr”. All’indomani della pubblicazione del Rapporto, ha preso posizione anche Anea (Associazione nazionale degli enti di governo d’ambito per l’idrico e i rifiuti), anch’essa aderente ASviS, che ha sottolineato come il Rapporto, relativamente al Servizio idrico integrato, “delinei un quadro che non riesce a rappresentare in modo autentico il settore. Purtroppo non ne emerge l’evoluzione portata avanti in questi ultimi anni, grazie agli sforzi messi in campo da tutti gli attori che vi operano”.

Il dibattito conferma che sull’argomento continuano a confrontarsi due visioni differenti: da una parte, i sostenitori della gestione pubblica ritengono che l’acqua debba essere riconosciuta dall’Italia come bene non economico, favorendone la priorità degli usi umani rispetto a quelli produttivi (circa l’85% delle produzioni agroalimentari è irriguo). Il 9 dicembre, alla vigilia della Giornata Mondiale dei diritti umani, un gruppo di associazioni impegnata nella difesa dell’acqua come diritto umano si è riunito a Bruxelles davanti alla sede del Parlamento europeo e a Milano presso la Borsa, per protestare contro la quotazione dell’acqua in Borsa. Da circa un anno al Chicago Mercantile Exchange, una delle principali piazze finanziarie di derivati, è infatti possibile scambiare i cosiddetti futures sull’acqua, cioè fondi di investimento che consentono di garantirsi l’accesso all’acqua attraverso un prezzo di acquisto prefissato. Occorre ricordare che l’acqua dolce sta diventando una risorsa più scarsa negli Stati Uniti a causa delle minacce interconnesse di calore estremo e siccità. D’altra parte ci sono coloro che considerano la gestione industriale come un elemento imprescindibile: la partecipazione attiva delle imprese, la loro organizzazione e le competenze manageriali sarebbero indispensabili per recuperare il ritardo rispetto all’Europa e far fronte alle sfide del ventunesimo secolo.

Rispetto a questa visione e approccio ha qualche dubbio Rosario Lembo, presidente del Comitato italiano Contratto mondiale sull’acqua (Cicma), associato ASviS e componente del Gruppo di lavoro sul Goal 6 dell’Agenda 2030: “L’accesso all’acqua per tutti, così come sta avvenendo per i vaccini, è un diritto umano universale di cui gli Stati devono prendersi carico garantendone accesso a tutti. Non si può delegare al mercato l’accesso a beni primari e a servizi pubblici di interesse generale come quello idrico e sanitario. Tantomeno è possibile derubricare i diritti umani in bisogni o diritti sociali, che ognuno può soddisfare in funzione del potere di acquisto o con il sostegno di bonus. Gli investimenti a tutela dei beni pubblici demaniali spettano allo Stato: la tariffa dell’acqua può coprire i costi del consumo, la manutenzione efficiente degli impianti e i costi dei controlli per garantire la tutela della qualità della risorsa, non gli investimenti infrastrutturali”. Secondo Lembo, la gestione industriale è un modello utile “se però è finalizzato a tutela della risorsa e non a distribuire profitti agli azionisti e ai fondi di investimento; se sull’acqua non si può fare profitto, gli eventuali risultati positivi della gestione devono essere reinvestiti a tutela della qualità dell’acqua e del ciclo idrico, come avviene per statuto nelle società a totale controllo pubblico da parte dei Comuni. Il volume di acqua che la natura mette a disposizione è sempre lo stesso, a livello di ciclo naturale. Sono gli usi e i modelli di gestione che fanno la differenza. Possiamo considerarla una risorsa economica, come purtroppo si trova conferma nell’articolo 6 del Ddl sulla concorrenza, cioè una merce la cui gestione va affidata ai privati e su cui si può fare profitto, e nel contempo utilizzarla, come propongono il Pnrr e il Mite, anche per superare i problemi della crisi energetica, ad esempio producendo più idroelettrico per produrre idrogeno come fonte sostitutiva del petrolio. Dato che per produrre idrogeno è necessario utilizzare acqua dolce di buona qualità, l’uso andrà a discapito della disponibilità di acqua dolce per uso umano. È urgente che l’Italia si doti, come sollecitato dal referendum, di una legge quadro del governo dell’intero ciclo idrico e di un modello di goverrnance pubblico e politico affidato ad una autorità ad hoc o a un solo ministero, superando la frammentazione delle competenze fra diversi ministeri”.

Un’opportunità per il settore idrico esiste: il Pnrr ha stanziato circa 4,3 miliardi, di cui oltre la metà per le infrastrutture idriche primarie e la quota restante destinata all’utilizzo di acqua in agricoltura, acquedotti e digitalizzazioni delle reti, fognature e depuratori. Ma, ammesso che siano sufficienti, anche se le criticità segnalate ci dicono che non è così, serviranno buoni progetti e operatori in grado di utilizzarli. “Ci troviamo in una situazione in cui i fondi vengono erogati dove esistono gestori in grado di lavorarci, mentre nelle zone scoperte c’è il rischio che rimangano inutilizzati”, afferma Federica Daga, deputata del M5S e prima firmataria di una proposta di legge sulla gestione pubblica dell’acqua, che però è rimasta bloccata in Parlamento. “La ricerca delle perdite non è tanto sull’acquedotto quanto sulle reti di distribuzione, ai quali sono destinati 900 milioni di euro. Una cifra bassa: erano stati richiesti 3,5 miliardi ma alla fine la disponibilità è stata quella, oltre a circa due miliardi dedicati al fondo del piano idrico nazionale”. Sulle priorità da affrontare, Daga dichiara: “C’è il tema delle infrazioni europee sul quale abbiamo lavorato con il commissario straordinario, visto che le procedure coinvolgono un po’ tutta Italia e ne arrivano delle nuove su agglomerati urbani più piccoli. Il lavoro sull’acqua è molto grande, perché comprende i tre settori del potabile, agricolo e industriale. Tutti gli usi idrici devono essere messi a sistema per comprendere effettivamente quanta acqua stiamo utilizzando in Italia, anche a fronte dei cambiamenti climatici”.

di Andrea De Tommasi

lunedì 20 dicembre 2021