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Lo spazio vitale delle donne nel futuro delle città

L’ultimo libro di Leslie Kern riaccende la discussione sulla disuguaglianza di genere che renderebbe i nostri quartieri ostili alle donne. Le città che viviamo oggi sono progettate da maschi per i maschi, scrive l'autrice in Feminist City.

di Andrea De Tommasi

Con le aree urbane che dovrebbero ospitare il 60% della popolazione mondiale entro il 2030, un orientamento alla prospettiva di genere appare necessario per la costruzione di città inclusive, sicure e sostenibili, come indicato dal Goal 11 dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite. Ciò significa un ruolo attivo a partire dalle scelte di progettazione, che invece vedono a margini le donne e le ragazze, nonostante costituiscano la metà della popolazione urbana. Una pubblicazione della Banca mondiale rivela che le donne occupano solo il 10% degli incarichi di alto livello presso i principali studi di architettura del mondo. “Uomini, donne, minoranze di genere e persone con abilità diverse tendono a utilizzare lo spazio pubblico in modi diversi”, ha sottolineato Sameh Wahba, direttore globale della Banca mondiale per le aree urbane, gestione dei rischi di catastrofi, resilienza e territorio. “Abbiamo tutti esigenze e routine diverse quando si tratta di accesso alla città. Tuttavia, se la città è costruita per l'utente maschio, trascura i bisogni, gli interessi e le abitudini di donne, ragazze e minoranze sessuali e di genere nella città. Ciò ha un impatto enorme sull'accesso delle donne al lavoro o alla scuola, sulla loro libertà e sicurezza, nonché sulla loro salute e rafforza le disuguaglianze di genere”. Secondo la Banca mondiale - che ha diffuso un Manuale che contiene linee guida per una gamma di campi di pianificazione, tra cui alloggi, trasporti pubblici e infrastrutture per la mobilità, altri servizi infrastrutturali e piani generali della città - spesso gli urbanisti, i project manager e i professionisti non sono consapevoli dell’importanza di dare priorità al genere nel processo di progettazione urbana.

 

Per Leslie Kern, geografa americana e direttrice degli studi di genere all’università canadese Mount Allison, “viviamo nella città degli uomini. I nostri spazi pubblici non sono progettati per corpi femminili. C'è poca considerazione per le donne come madri, lavoratrici o mentre svolgono lavori di assistenza. Le strade urbane sono spesso un luogo di minacce piuttosto che di comunità. La gentrificazione ha reso la vita quotidiana delle donne ancora più difficile”. Nel suo ultimo libro, “Feminist City: claiming space in a male made world” (Verso Books, 2020), Kern offre una visione alternativa della “città femminista”, che muove da una critica radicale all’esistente: le città in cui viviamo oggi sono progettate da maschi per i maschi, rappresentando un ostacolo all’emancipazione femminile. Attraverso la storia, l’esperienza personale e la cultura popolare, la conclusione cui giunge l’autrice è che la maternità, l’amicizia, l’attivismo delle donne non trovano piena legittimità nel modello urbano attuale, che fatica a investire nella socialità, eretto com’è per compartimenti stagni: il quartiere residenziale, gli uffici, il supermercato, le scuole.

 

La Ville du quart d’heure (“città del quarto d’ora”), la proposta lanciata dalla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, è un esempio di urbanistica virtuosa, secondo Kern: una metropoli nel cui quartiere puoi trovare tutto ciò di cui hai bisogno in 15 minuti da casa. A Vienna, città pioniera del cosiddetto gender mainstreaming, c’è Aspern Seestadt, un quartiere di 20mila abitanti progettato tenendo da conto come prioritarie le esigenze delle donne. “È un quartiere in cui tutte le strade hanno nomi di donne, ma soprattutto è uno dei quartieri con i più alti livelli di qualità della vita al mondo”, ha dichiarato Kern in un’intervista rilasciata il 23 agosto a Fan Page, in cui marca la differenza con le scelte urbanistiche prevalenti nelle nostre metropoli, proponendo un sistema di transito che accolga mamme con passeggini, uno spazio pubblico con abbastanza servizi igienici e mezzi di trasporto dove le donne possano viaggiare senza molestie. “Non credo che cambiando le città si cambi automaticamente la società”, ha dichiarato Kern, “ma sono convinta che sia un modo importante per affermare a chi appartiene lo spazio pubblico quali siano le priorità. Cambiare il nome di una via, o sostituire una statua di un uomo con quella di una donna, è un gesto simbolico che ha valore, ma ne avrebbe ancora di più se ciò accadesse in una città con bagni pubblici di qualità, con i fasciatoi. O in una città che riorganizza il suo trasporto pubblico assumendo come prioritarie le esigenze delle donne”. Probabilmente il pensiero radicale espresso in “Feminist City” farà discutere, anche per la teoria stessa che attraversa l’intera opera: può una città essere femminista? Tuttavia, fornisce senz’altro stimoli interessanti per affrontare il tema delle disuguaglianze che abitano le città che riaprono dopo la pandemia.

 

D’altronde, il Covid ha cambiato le vite quotidiane di milioni di persone e anche le modalità di lavoro non saranno più le stesse. Ripensare le città del futuro significa immaginare anche città in cui sempre più persone, rispetto al passato, lavoreranno in smart working, con una maggiore flessibilità nei tempi tra famiglia e lavoro, il che può essere migliore per le donne se il lavoro di cura venisse equamente distribuito. Nella realtà le indagini recenti hanno confermato che la responsabilità della cura familiare continua a gravare in prevalenza sulle donne. Secondo McKinsey, i posti di lavoro delle donne sono 1,8 volte più vulnerabili a questa crisi rispetto a quelli degli uomini. Le donne rappresentano il 39% dell'occupazione globale, ma arriveranno al 54% delle perdite complessive di posti di lavoro. Una delle ragioni di questo maggiore impatto è che il virus sta aumentando in modo significativo il peso dell'assistenza non retribuita, che viene portato in modo sproporzionato dalle donne. Questo, tra gli altri fattori, significa che l'occupazione femminile sta diminuendo più rapidamente della media, anche a causa del fatto che donne e uomini lavorano in settori diversi. McKinsey stima che il 4,5% dell'occupazione femminile sia a rischio nella pandemia a livello globale, rispetto al 3,8% dell'occupazione maschile, proprio in considerazione dei settori a cui uomini e donne partecipano maggiormente.

 

Ulteriore conferma del fatto che lo smart working abbia rappresentato per le donne un doppio carico di fatica è arrivata da un’indagine condotta in Italia durante il lockdown da Valore D, l’associazione di imprese che si impegna per l’equilibrio di genere e la cultura inclusiva nelle organizzazioni, su un campione di oltre 1300 lavoratori. Sulle donne si è abbattuto un carico extra, mamme a tempo pieno, con le scuole chiuse, lavoratrici senza le pause in ufficio, di nuovo casalinghe. La ricerca ha mostrato che, in quel periodo, una donna su tre ha lavorato più di prima e non è riuscita, o ha fatto fatica, a mantenere un equilibrio tra il lavoro e la vita domestica. Tra gli uomini il rapporto è di uno su cinque.  Il 60% del campione femminile dipendente era già abituato a lavorare in modalità “lavoro agile”, con flessibilità di orario e spazi. Tuttavia, lo smart working richiede una grande disciplina personale, la ricerca di una postazione di lavoro tranquilla e isolata e orari determinati, tutti aspetti non facili da mettere in atto in un momento di convivenza familiare forzata. Il rapido e massiccio ricorso al lavoro agile ha causato anche un fenomeno repentino e non prevedibile, come lo svuotamento delle metropoli liberate dal traffico e dai pendolari. La pandemia ha dunque messo in discussione la rapida urbanizzazione mondiale, che stava velocemente attuandosi in modo particolare nei Paesi emergenti asiatici, africani e sudamericani. Anche in questo caso, il peso di potenziali, drammatiche ricadute potrebbe gravare in misura particolare sulle donne.

 

Le stime pre-Covid prevedono, infatti, che il 95% dell’espansione urbana nei prossimi decenni avverrà nei Paesi in via di sviluppo, dove più della metà delle donne e delle ragazze non ha almeno uno dei seguenti elementi: accesso all'acqua pulita, servizi igienici migliori, alloggi durevoli o uno spazio abitabile sufficiente (UN Women). Le donne sono rappresentate in modo sproporzionato tra i residenti più poveri nelle città, con più della metà della popolazione urbana femminile di età compresa tra 15 e 49 anni che vive in baraccopoli nel 67% dei Paesi.  Bisogna ricordare che attualmente 828 milioni di persone vivono in baraccopoli, e il numero è in continuo aumento. Negli slum urbani, sono spesso le donne a trascorrere la maggior parte del tempo in aree fortemente inquinate e le scarse condizioni igieniche le rendono più vulnerabili alle malattie. Quando si tratta di istruzione, ogni regione in via di sviluppo nel mondo ha raggiunto, o è vicina a raggiungere, la parità di genere a livello di educazione primaria. Ma la disparità aumenta man mano che gli studenti crescono. Nell'Africa subsahariana, ad esempio, ci sono ancora solo 64 ragazze ogni 100 ragazzi al college. Le donne guadagnano ancora fino al 30% in meno degli uomini per lo stesso lavoro. Per le donne e le ragazze, il trasferimento nelle città potrebbe significare un reddito più alto, un lavoro migliore e una maggiore indipendenza. Ma gli spazi urbani, soprattutto in alcuni Paesi, non sono sempre sicuri, limitandone il diritto delle donne di muoversi liberamente. Uno studio condotto da UN Women nel 2014 ha rilevato che a Port Moresby, capitale dello Stato di Papua Nuova Guinea, oltre il 90% delle donne e delle ragazze ha subito una qualche forma di violenza durante l’accesso ai trasporti pubblici, sugli autobus, nell’attesa alle fermate o durante il tragitto a piedi per raggiungere un taxi o un bus.

 

Per monitorare i progressi verso il Goal 11, sono cruciali i dati sulle esperienze di trasporto delle donne e degli uomini in relazione ai loro diversi ruoli sociali ed economici. Si tratta di elementi preziosi per elaborare modelli di trasporto, consentendo alle città non solo di agire sui cambiamenti climatici con la riduzione delle emissioni, ma anche di rendere i propri servizi più inclusivi socialmente. I governi nazionali dovrebbero intervenire, spingendo le città che non forniscono i dati e le informazioni necessarie per tracciare e monitorare i loro progressi ad allinearsi al più presto.

 

 

di Andrea De Tommasi

mercoledì 2 settembre 2020