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Quando l’ideologia vince sulla realtà: siamo nell’epoca della post-verità?

Dopo che Zuckerberg ha scelto di consegnare il fact-checking in mano alla comunità di Meta, si è riacceso il dibattito su libertà di parola e censura. Le big tech della Silicon Valley sempre più orientate verso la deregolamentazione.

martedì 21 gennaio 2025
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Nel comunicato video rilasciato il 7 gennaio per annunciare la revisione della politica di moderazione dei contenuti di Meta, Mark Zuckerberg, proprietario di Facebook, Instagram, Whatsapp e Threads, ha detto: “Sembra che ci troviamo in una nuova era”.

La domanda è: di quale era stiamo parlando?

I fatti, in breve

Per chi non fosse rimasto aggiornato, a inizio gennaio Meta, dopo aver portato avanti per anni una delle più grandi operazioni di fact-checking al mondo, ha deciso di chiudere con la verifica dell’attendibilità delle notizie che circolano sui social di sua proprietà. Questo compito è stato consegnato nelle mani della comunità, che da questo momento in poi si dovrà esprimere sulla veridicità dei post pubblicati online, sulla falsa riga del modello di X, il social network gestito da Elon Musk.

Zuckerberg ha spiegato che il suo obiettivo è “ritornare alle radici” della libertà di parola che ha dato vita a Facebook, e che per farlo si “sbarazzerà di un mucchio di restrizioni” su argomenti come immigrazione e genere, su cui le attuali regole dell'azienda “sono semplicemente fuori dal discorso mainstream”. I post in questione non verranno quindi rimossi a meno che non ci siano reclami da parte degli utenti. Inoltre, ha commentato: “I fact-checker di Meta sono stati semplicemente troppo di parte dal punto di vista politico e hanno distrutto più fiducia di quanta ne abbiano creata”.

Dichiarazioni che sono state seguite subito dai fatti, dal programmato spostamento dell’intero team dalla California (liberal) al Texas (repubblicano) al cambio della guardia al vertice della direzione affari globali: qui il dimissionario Nick Clegg, ex vice primo ministro inglese di area laburista, è stato sostituito dal conservatore Joel Kaplan, che ha lavorato alla Casa Bianca sotto il presidente George W. Bush. E un fedelissimo di Trump, Dana White, capo dell’Ufc, la più grande federazione al mondo di arti marziali miste, è entrato a far parte del consiglio di amministrazione di Meta.

Nella sua dichiarazione, Zuckerberg ha anche detto che “i governi e i media tradizionali hanno spinto per censurare sempre di più”, prendendosela in particolare con l’Europa, un continente con “un numero sempre crescente di leggi che istituzionalizzano la censura e rendono difficile costruire qualcosa di innovativo”.

“Molto di questo è chiaramente politico”, ha proseguito, “ma ci sono anche un sacco di cose legittimamente cattive là fuori, droga, terrorismo, sfruttamento dei minori, e le prendiamo molto sul serio”. Notare che tra le cose “legittimamente cattive” il patron di Meta non ha menzionato né le questioni di genere né quelle migratorie, che sono da tempo nel mirino di Trump, Musk e di tutti quei conservatori che si oppongono a quello che definiscono il “virus woke” di sinistra.

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Come se non bastasse, dopo una settimana il Ceo di Meta ha chiuso i programmi per diversità, equità e inclusione (acronimo: Dei) della sua azienda. In un promemoria interno, Zuckerberg ha affermato che “il panorama legale e politico che circonda gli sforzi per la diversità, l'equità e l'inclusione negli Stati Uniti sta cambiando”, e quindi perché non seguire l’onda.

Janelle Gale, vicepresidente delle risorse umane di Meta, ha annunciato che l'azienda ha posto fine a diversi programmi che avevano come target gruppi minoritari, tra cui il Diverse slate approach, utilizzato per promuovere pratiche di assunzione più eque.

La mancanza di diversità dal punto di vista etnico e di genere nella Silicon Valley è un fatto lampante (basta vedere i Ceo di Meta, X, Amazon, OpenAI e quasi ogni altra azienda che fatturi miliardi di dollari all’anno). Secondo il più recente rapporto sulla diversità di Meta (datato 2022), l’azienda ha raddoppiato il numero di dipendenti neri e ispanici negli Stati Uniti due anni prima del suo obiettivo, aumentando le quote rispettivamente dal 3,8% e 5,2% al 4,9% e 6,7%. Ma da adesso in poi queste linee guida non rientreranno più nelle politiche aziendali. Come è accaduto tra l’altro anche per McDonald's, Walmart, Ford e Lowe's.

Perché Zuckerberg ha preso questa decisione

Facciamo un passo indietro. Secondo l’Economist, l’allentamento dell’approccio alla moderazione dei contenuti non è un fatto nuovo per Meta. Per esempio, già nel 2023 aveva consentito la proliferazione di contenuti che affermavano che le elezioni del 2020 erano state “rubate”.

Un approccio molto diverso dalla politica di Facebook di qualche anno fa. Dopo la prima elezione di Trump del 2016, la piattaforma venne accusata di aver amplificato le fake news pro-Trump. E Zuckerberg decise di correre ai ripari, assumendo 40mila moderatori e spendendo 280 milioni per un comitato di vigilanza sul free speech. Come se non bastasse, nel 2021, dopo la vittoria di Biden, il Ceo di Meta aveva bannato Trump da Facebook.

Dopo questa mossa, come si legge su Platformer, Zuckerberg si sarebbe aspettato un po’ di riconoscenza dall’area democratica, riconoscenza che evidentemente non è arrivata. Da una parte è stato accusato dai repubblicani di censurare i contenuti di destra, dall’altra dai democratici di aver favorito la polarizzazione nel Paese. Da parte di entrambi, di gestire delle app che creano danni ai più giovani.

Nel 2024 Zuckerberg si è ritrovato con Meta citata in giudizio da 42 Stati americani e con un processo dell’antitrust molto complesso per l’acquisto di Instagram e Whatsapp, che partirà ad aprile. E con il tycoon che giusto qualche tempo fa gli prometteva che sarebbe andato “in galera per il resto dei suoi giorni” il Ceo di Meta ha visto una possibilità ed evidentemente l’ha sfruttata.

Libertà di parola, o di dire quello che si vuole

Questo approccio al fact-checking era quindi nell’aria già da un po’. Sempre nel video intervento del 7 gennaio, Zuckerberg ha detto che questa nuova direzione implicherà la proliferazione di contenuti più “brutti” sui social, ma che se ne guadagnerà di libertà di parola. Il problema è capire di quale libertà Zuckerberg stia parlando.

Spesso si confonde la libertà di parola con libertà di dire quello che si vuole. Se infatti ognuno è libero di esprimere la propria opinione, non lo è nel momento in cui quell’opinione è offensiva verso un’altra persona. Per fare un esempio a noi vicino, se in Italia non si può sostenere l’ideologia fascista è perché lede la memoria storica e una serie di valori alla base della Costituzione italiana, oltre a rischiare di fomentare il ritorno di fiamma di quegli ideali. Così non sembra andare però per le questioni di genere o migratorie, che per Zuckerberg e compagni sembrano molto più suscettibili al discernimento dell’opinione pubblica.

Secondo un’inchiesta di The Intercept, epiteti come “i gay sono dei freak” oppure “i messicani immigrati sono spazzatura” saranno consentiti dalla nuova politica di Facebook. Le persone potranno anche dichiararsi “orgogliosamente razziste” e dire cose come “I neri sono più violenti dei bianchi”.

Anche altri insulti, legati per esempio alle capacità intellettuali di un’etnia rispetto a un’altra, potranno essere accettati, se suffragati da “prove accademiche”. “Ho appena letto uno studio statistico secondo cui gli ebrei sono più intelligenti dei cristiani” potrebbe risultare tra questi (come fa notare The Intercept, non è chiaro se poi bisognerà linkare veramente gli studi in questione).

Il quotidiano ha anche fatto notare che commenti come “tr*nny” (termine offensivo per descrivere le persone transgender) potranno essere accettati. Dopo la pubblicazione dell’articolo, un portavoce di Meta ha contattato la testata per dire che si trattava di un errore che sarebbe stato corretto da Facebook.  

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La domanda però è: chi decide se un contenuto sia offensivo o no. Secondo il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio, intervenuto nel programma Otto e Mezzo condotto da Lilli Gruber, non dovrebbe farlo nessuno: “Zuckerberg ha annunciato che non ci saranno più i fact-checker su Meta? Meno male, è un’ottima notizia. È bellissima l’idea di fare i fact-checking, ma il problema è che bisogna investire qualcuno del compito di impancarsi a ministro della Verità, orwellianamente parlando. E io non riconosco a nessuno l’autorità di fare il ministro della Verità”.

Questo ragionamento parte però da due presupposti discutibili: che tutti possano far sentire la propria voce, quando un contenuto risulta offensivo, e che tutti abbiano la possibilità (o la volontà) di interpretare cosa sia vero e cosa non lo è. Per fare un esempio concreto, mettendosi nei panni di una persona che volesse compiere un percorso di transizione di genere, rischiare di subire sui social lo stigma di “tr*nny” o leggere di studi non suffragati dalla scienza potrebbe portare quella persona a non compiere il passo, o a non trovare il modo per far ascoltare la propria opinione a riguardo. I social non funzionano come una piazza pubblica: i contenuti che girano con maggiore frequenza sono sostenuti da forti investimenti economici e dai “mi piace” che ricevono (legati agli investimenti economici stessi e alle logiche dei social sui contenuti di maggiore tendenza). Inoltre, le piattaforme creano le cosiddette “camere dell’eco”, ovvero stanze in cui gli utenti sono assimilati ad altri utenti con la stessa opinione, minando alla base la possibilità di sviluppare una qualsiasi capacità critica rispetto alle proprie convinzioni e di mettere in contatto persone con punti di vista diversi.  

Quindi si aprono due strade: vietare la proliferazione di questi contenuti offensivi, oppure lasciare la valutazione agli utenti. Un aspetto che ci porta alla seconda considerazione, cioè che ognuno possegga gli strumenti per discernere una fake news da una notizia vera. Appurato però, in modo del tutto teorico, che ognuno di noi li possieda (per non riproporre una visione verticale del processo di conoscenza, dove in alto c’è chi sa e in basso chi non sa), è molto più difficile credere che utenti non stipendiati per compiere operazioni di fact-checking possano compierle comunque in modo onesto e obiettivo, senza rischiare di cadere in una serie di bias cognitivi (come la ricerca della conferma della propria opinione) molto diffusi tra il popolo social.

L’epoca della post-verità

Questi potrebbero essere (se già non lo sono) gli anni in cui la verità non conta più. In un’interessante intervista rilasciata su Wired, Lee McIntyre, autore, ricercatore e accademico statunitense, conosciuto soprattutto per il saggio Post-verità, delineava già qualche tempo fa le caratteristiche di un nuovo approccio all’informazione e alla conoscenza dei fatti.

“Che le persone mentano, e che la politica usi la propaganda per perseguire i propri fini non è certo una novità. Per post-verità io però intendo qualcosa di molto diverso: un contesto in cui l’ideologia ha la meglio sulla realtà perché quale sia la verità interessa poco o niente. Quando si mente, si cerca di convincere qualcuno che quel che si sostiene è vero. Con la post-verità, tutto questo è irrilevante. Non occorre sforzarsi di ingannare nessuno. Non si devono costruire prove false. Quel che conta è avere la forza di imporre la propria versione, indipendentemente dai fatti. Basta ripetere concetti semplici e accattivanti, anche se infondati, perché a nessuno conviene verificarli”.

La post-verità, per McIntyre, è basata su un bias cognitivo che riguarda la difficoltà di rapportarsi con i concetti che contraddicono i nostri valori: parlando delle campagne di Trump, McIntyre ha detto che probabilmente “molti dei suoi sostenitori non sono nemmeno così convinti della veridicità delle sue affermazioni”, ma che “traggono piacere ascoltandolo”, perché “preferiamo credere alle cose che si accordano alla nostra mentalità, ai nostri valori o pregiudizi, senza preoccuparci che siano fondate o no”.

Questo trend è rafforzato dai social, che creano quelle “camere dell’eco” o silos informativi che rafforzano le opinioni personali. Il fatto è che “questi strumenti col tempo sono diventati sempre più aggregatori di notizie la cui fonte è spesso incerta e in cui il confine tra opinioni e informazioni è sempre più sfumata”.

Una falla interpretativa che può essere usata per ottenere consenso politico, facendolo passare per empatia nei confronti dell’elettorato. Mettere in dubbio i fatti con affermazioni non provate, rispondere ai dati con le opinioni, immedesimandosi nelle percezioni del pubblico, funziona sempre, come dimostrano i fatti. “Per spingere il pubblico ad accettare una riduzione di libertà in cambio di maggior sicurezza, per esempio, si può enfatizzare il rischio della criminalità”, ha affermato McIntyre. “E davanti ai numeri che mostrano un calo delle rapine o dei delitti violenti, rispondere che questa non è la percezione della gente. Chi ascolta percepirà empatia nei propri confronti, senza accorgersi di essere ingannato. Confrontato con i dati, ricorderà un episodio di cui è stato testimone o vittima, a conferma di un dato generale. Un errore di ragionamento di cui, tuttavia, la maggior parte delle persone non è consapevole o che non riesce a dominare”.

E se la comunità social, corteggiata da una comunicazione costruita per generare consensi, rafforzerà queste informazioni, le possibilità che vengano smontate dalla comunità stessa caleranno drasticamente.

Copertina: Ansa