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La chiave strategica e le incognite della pandemia

La Cina, avviata a diventare la prima economia mondiale, punta ora a consolidare la sua posizione geo-strategica e passare da potenza regionale a potenza globale. Con il contrasto degli Stati Uniti, ma con il sostanziale avallo dell’Europa e dell’Italia. Ma il Covid-19 potrebbe creare molti ostacoli. 28/09/20

di Massimo Deandreis

 

La Cina è un Paese dalle grandi e antiche tradizioni, la cui cultura di fondo esalta l’importanza di guardare nel lungo periodo e di procedere con determinazione consapevoli della propria meta. Con questa filosofia, negli ultimi 20 anni ha perseguito una crescita accelerata e ha visto il suo Pil crescere stabilmente fino ad arrivare agli 11.504 miliardi di dollari stimati per il 2019, con un incremento totale del 375%. Il confronto con gli altri principali Paesi è quasi mortificante. Nello stesso periodo, infatti, il Pil Usa è cresciuto del 43% arrivando a 18.357 miliardi di dollari, e quello europeo (al netto di GB) è cresciuto del 28%, arrivando a 16.626 miliardi di dollari. Anche considerando il rallentamento economico già previsto, e che è stato accelerato dal Covid-19, non è remoto il traguardo di superare il Pil americano e quello europeo, anche se gli indicatori pro-capite, sono ancora molto distanti da quelli occidentali. Questi dati sanciscono in modo evidente l’emergere di una nuova superpotenza economica e il graduale spostamento a est del baricentro geografico mondiale prima basato unicamente sull’asse Atlantico.

È questo lo sfondo dietro il quale va letta la Belt and Road Initiative. Ma il tema si pone anche per l’Europa e soprattutto per la sua sponda mediterranea, che sta ritrovando una importante centralità nell’economia marittima. Se guardiamo alle tre più importanti rotte mondiali dei cargo, abbiamo un formidabile indicatore dei fenomeni in atto. Nel 1995 la rotta che dall’Asia portava in Europa via Suez copriva “solo” il 27% della quota di mercato. Ma nel 2018 la fotografia è cambiata: la rotta via Suez è costantemente cresciuta fino ad arrivare al 41% del totale, mentre la rotta transpacifica e quella transatlantica sono calate. Il Canale di Suez è quindi il perno del successo della BRI. Questa grande opera infrastrutturale, raddoppiata nel 2016, consente ora la navigazione nelle due direzioni per qualsiasi tipologia e dimensione di nave, ed è un dato di fondamentale importanza perché l’industria dello shipping è anch’essa in una fase di profonda mutazione. A livello globale si susseguono le operazioni di M&A tese a creare veri e propri colossi dello shipping come la cinese Cosco. Inoltre, le grandi alleanze tra carrier hanno portato il mercato a essere concentrato su tre grandi raggruppamenti con i cinesi in posizione dominante.

Le grandi dimensioni fanno riferimento alla ricerca di economie di scala, che si generano solo se le navi viaggiano piene. Però viaggiare a pieno carico nel 2000 significava portare 10.000 container, ossia una quantità di merci tale da poter caricare tutto in un porto (per esempio Shangai) per scaricare nel porto di destinazione (ad esempio New York). Oggi una nave da 23-24.000 container contiene una quantità di merce talmente grande da non essere compatibile con nessuna spedizione puntuale da un unico porto di imbarco a un unico porto di sbarco. Per navi così grosse quello che conta è il carico medio lungo tutta la rotta. È questo che determina la generazione di economie di scala. In tale scenario non conta la rotta più breve, ma quella che garantisce maggior numero di porti toccati dove caricare e scaricare al fine di generare complessivamente, lungo tutta la rotta, il massimo carico medio. Ecco, quindi, che la rotta via Suez, cioè la Belt and Road marittima, assicura questo vantaggio perché passa vicino a molti centri nevralgici: Singapore e lo stretto di Malacca, molti porti nell’Oceano indiano, l’area del Golfo arabico e poi, superato Suez, il Mediterraneo.

Questo era lo scenario prima della pandemia, quando anche per il Mediterraneo tutti gli indicatori davano segnali positivi: i porti del Sud Med stavano guadagnando competitività e avevano ridotto il gap con gli efficienti porti del Nord Europa; il traffico via Suez era in costante aumento. Soprattutto era in forte crescita la presenza di grandi navi di compagnie cinesi, particolarmente nei porti dove avevano fatto acquisizioni di terminal o autorità portuali. Il Pireo in Grecia era stato il primo, ma ormai compagnie cinesi hanno basi importanti negli Emirati Arabi Uniti, a Port Said in Egitto, ad Haifa in Israele, a Malta, in Italia a Genova e Trieste, a Valencia in Spagna, e poi ancora nei porti del Nord Europa come Zeebrugge, Anversa, Rotterdam e Amburgo, dove Cosco ha il suo quartier generale.

Una presenza capillare, fatta di investimenti infrastrutturali e logistico-portuali frutto di una visione globale e strategica. Va infatti ricordato che il Mediterraneo è un piccolo lago stretto tra Europa e Nord Africa, ma sommando il Pil dell’Europa e quello dei Paesi MENA (Middle East and North Africa) si sfiorano i 20.000 miliardi di dollari; la più grande area economica al mondo, ben oltre gli Stati Uniti. E poi due realtà economiche complementari (manifattura e industria in Europa, petrolio ed energia nell’area MENA). Dal punto di vista cinese, garantirsi l’entrata nel Mediterraneo e avere le basi portuali e logistiche per commerciare, significa assicurarsi solidi vantaggi strategici e una posizione dominante su scala globale, non più solo regionale.

Va letto in questa chiave il dibattito sul ruolo dell’Italia. Il nostro Paese avrebbe, grazie alla sua posizione geografica, un ruolo naturale di ponte logistico tra Europa e Sud Mediterraneo. I porti di Genova (sul Nord Tirreno) e Venezia-Trieste (nell’Alto Adriatico) sono potenzialmente le migliori porte di accesso per il Centro Europa. Ma mancano i collegamenti ferroviari e intermodali; il terzo valico e la Tav fanno parte di questo disegno. I porti del Sud Italia (che già adesso coprono il 45% del traffico marittimo del nostro paese) sarebbero ideali piattaforme logistiche per l’industria italiana dalla Pianura padana in giù. Sarebbero. Perché anche in questo caso manca l’intermodalità ferroviaria.

I modelli portuali più efficienti, di miglior successo e che hanno generato importanti poli di sviluppo economico dei loro paesi hanno in comune (da Singapore a Rotterdam) un concetto: il porto non è più solo il luogo dove la merce e le persone partono e arrivano. Subito dopo sbarcate, merci e persone si muovono. Tanto più lontano e velocemente possono arrivare dal luogo di sbarco, tanto più si genera efficienza. Ma ancora non basta. I porti più avanzati sono quelli che hanno una stretta connessione con la realtà produttiva e industriale. Che attraggono investimenti. Che sviluppano sinergie con il mondo accademico, ospitano incubatori d’impresa, finanziano start-up innovative. E hanno retroporti e zone logistiche speciali su cui offrire pacchetti localizzativi e vantaggi fiscali. Questo modello portuale è un potente generatore di sviluppo, di localizzazione produttive, di occupazione. I porti italiani hanno le caratteristiche per seguire questa vocazione. Hanno un posizionamento geografico unico e di grande vantaggio. Dal Pireo non arrivi facilmente a Budapest, Vienna o Monaco. Da Trieste sì.

Questo posizionamento strategico è stato molto ben compreso dai cinesi che anche nelle loro mappe indicano l’Italia come uno dei punti di arrivo della Belt and Road Initiative. Ma a fronte di questo quadro il cigno nero, tante volte evocato, è arrivato. La pandemia segna ora uno spartiacque importante anche per i progetti di espansione cinese. Ed è legittimo chiedersi se il rallentamento sarà solo temporaneo o se costituirà assai freno più forte per gli ambiziosi progetti cinesi.

 

di Massimo Deandreis, direttore generale di SRM (Studi Ricerche Mezzogiorno), presidente GEI (Associazione Italiana degli Economisti d’Impresa)